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Le parole sono pietre. Abbecedario del conflitto

Pubblicato: 15-11-2023
Rubrica: Tempi Moderni
Le parole sono pietre. Abbecedario del conflitto

Da tempo, o almeno da quando ci stanno spiegando che il mondo si divide tra Buoni (l’Occidente) e i Cattivi (tendenzialmente, il resto del mondo) e che questi ultimi sono non solo Malvagi ma anche Pazzi, le parole stanno diventando Pietre sospese sulle nostre teste; o meglio ancora, Mine vaganti suscettibili di esplodere in ogni momento.

Il nostro compito, quello di tutti gli uomini di buona volontà, è dunque quello di guardarci dentro, di contrastarne, nella misura del possibile, notizie e argomenti.

“Il mio granello di sabbia”. È il titolo di un libro in cui un dirigente partigiano ligure descriveva il suo contributo alla lotta di Liberazione. Catturato dai tedeschi, e temendo di non poter resistere alle loro torture, aveva tentato di recidere le sue corde vocali.

Noi non siamo tenuti a tanto.  Ragione di più per parlare. Per raggiungere la nostra piccola voce al coro che va crescendo e che sta maturando in ogni parte del mondo, intorno alla questione mediorientale e della possibilità di uscire dal ciclo di violenze con una soluzione politica. Da uomini di buona volontà; e non da tifosi.

Tutto ciò premesso, cominciamo la nostra rassegna, secondo un ordine alfabetico.

L’ANP DOVRA’ (DOVREBBE) GOVERNARE LA STRISCIA

Paradossalmente, l’Autorità palestinese potrebbe essere il principale beneficiario politico e l’Israele di Netanyahu il possibile sconfitto di un conflitto militare aperto dallo stragismo calcolato di Hamas e dalla comprensibile ma non giustificabile vendetta dello stesso Israele. In un passaggio decisivo per il futuro del Medio Oriente e per le stesse sorti dell’amministrazione Biden.

Parliamo della proposta di Washington (concordata con i paesi arabi “moderati”) di sostituire sia Hamas che lo stato ebraico nel governo di Gaza. E di una possibile accettazione, da parte dell’Anp, subordinata alla duplice richiesta di disporre dei mezzi necessari per governare la situazione e, soprattutto, di essere riconosciuta come entità statuale sia dalla collettività internazionale sia da Israele; e, quindi, come protagonista di un dialogo finalizzato, qui e oggi, a dare corpo alla formula “due popoli, due stati”.

Diciamo subito che questa proposta si subito è urtata contro il veto di Netanyahu. Coerente con quello che va sostenendo da anni: leggi che i palestinesi non possono essere parte di un negoziato perché il loro obbiettivo rimane sempre la distruzione di Israele. Ma anche con i suoi interessi di oggi: negare a Biden qualsiasi concessione, tenere il conflitto aperto, così da rendere inevitabile il ritorno di Trump alla Casa bianca.

Ragione di più per sostenerla, facendo appello al più vasto arco di forze: dai paesi del golfo, protagonisti della mediazione, all’opposizione israeliana sino ai pacifisti europei.

ANTISEMITISMO

Per millenni, l’antisemitismo è stato un male endemico, con una molteplicità di radici: religiose, sociali, etnico/ nazionali, economiche, politiche e persino esistenziali (l’ebreo come essere degenerato e corruttore).

A trasformarlo, verso la fine del secolo scorso, in progetto politico è stata la destra. Con le terrificanti conseguenze che tutti ricordano. Mentre la contestazione della sinistra, all’indomani della guerra dei sei giorni, ha sempre avuto di mira le politiche del governo e, in taluni casi, le conseguenze del progetto sionista; e mai gli ebrei in quanto tali.

Per converso, esistono gruppi influenti, come gli evangelici americani e le destre centro-orientali europee che detestano gli ebrei come persone mentre appoggiano a fondo l’attuale governo israeliano perché baluardo dell’occidente o perché islamofobi.

Possiamo, allora, lasciare a questi gruppi, come alla destra radicale occidentale e allo stesso Netanyahu il diritto di stabilire chi è antisemita e chi no?

LIBERATE BARGHOUTI

Non troverete questo slogan nel diluvio di carta stampata e di dichiarazioni e/o progetti politici che accompagnano questo conflitto. Comprese quelle dell’ufficialità palestinese e dello stesso Hamas.

Un silenzio non casuale. Perché Barghouti, leader della seconda Intifada e, in quanto tale condannato a tre ergastoli e in prigione da circa vent’anni, gode di una fiducia tra i palestinesi, siano essi di Cisgiordania o di Gaza, di gran lunga maggiore di quella, oggi ai minimi termini, di cui dispone Abu Mazen così come di quella, in crescita ma ancora minoritaria, nei confronti di Hamas.

Per questo, la richiesta della sua liberazione dovrebbe essere un punto fermo del movimento per la pace. Qui e ora.

BIDEN E I SUOI PROTETTI

Nessuno è in grado di prevedere quello che accadrà in Medio Oriente. Ma su di una cosa il giudizio è pressoché unanime: che la sorte di Biden sia ormai segnata. Il tutto in un clima di rassegnazione che la dice lunga sullo stato confusionale e sulla sordità intellettuale che oggi caratterizza le nostre classi dirigenti.

Il Nostro, per la verità, può ancora salvarsi. Ma per farlo deve uscire dalla contraddizione che ha sinora limitato le sue possibilità d’intervento. Perché non è possibile delegare formalmente ad altri la gestione del conflitto e la stessa “difesa dei valori dell’occidente” per poi pretendere che lo conducano entro certi limiti e non oltre.  Richiesta che viene, non a caso, ripetutamente disattesa; che dico esplicitamente respinta. Sia da Zhelensky che, a maggior ragione, da Netanyahu.

DISTRUGGERE HAMAS

Come dice benissimo un articolo del Pais (“Volere non è potere”) si tratta di un obbiettivo irrealizzabile: perché implicherebbe un conflitto prolungato. E, soprattutto, una occupazione della Striscia a tempo indeterminato. Con tutte le conseguenze catastrofiche del caso.

Questo, per quanto riguarda l’ala militare del movimento. Perché quella politica vive alla luce del sole e in alberghi a cinque stelle in Qatar, sotto la protezione dell’emiro e con la presenza in loco del comando Usa per il Medio Oriente. E nessuno si sogna di attaccarla.

DISTRUGGERE ISRAELE

“Vogliono distruggerci”. È quello che sostiene Netanyahu, almeno da vent’anni a questa parte; includendo in questa lista da un imprecisato “mondo arabo” ai palestinesi della Cisgiordania. Successivamente questa lista si è ridotta, grazie anche a lui. Amica la Russia, nel tenere a freno i malintenzionati; tranquilla la Siria, così come la Giordania e l’Egitto. Stretto in un accordo di non belligeranza Hezbollah. Firmati accordi con i paesi del golfo e colloqui in fase avanzata quello con l’Arabia saudita; e il tutto senza neanche una mancetta a favore dei palestinesi. Rimaneva l’Iran, neutralizzato da un’intesa sul nucleare che Trump- contro il parere dei suoi responsabili militari - ha voluto stracciare; ma è un Iran che, riposte nel cassetto le sue ambizioni militari, ha come obbiettivo supremo la sopravvivenza del suo regime.

Un edificio che ha sostanzialmente retto nell’attuale crisi. Ma che non potrebbe sopravvivere così com’è a una guerra prolungata. A dimostrazione definitiva del fatto che la guerra dei cent’anni non può essere vinta da nessuno.

ISRAELE HA IL DIRITTO DI DIFENDERSI

Più che di un diritto si tratta di un dovere. Cui i responsabili civili e militari dello stato ebraico, non hanno né voluto né saputo adempiere. In compenso, sono caduti a piè pari nella provocazione di Hamas: rispondendo ad un genocidio in miniatura non con una rappresaglia, questa soggetta a regole ma con una vendetta indiscriminata e senza limiti.
A Gaza, classificando automaticamente i civili come scudi umani e le strutture ospedaliere come covi di Hamas. In Cisgiordania riempiendo le prigioni e facendo il tiro a segno contro i contadini palestinesi che raccolgono le olive. E nello stesso stato d’Israele, estendendo la repressione a quanti, nel corso di questi anni, hanno operato per la riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

Tutto questo non ha niente a che fare né con il diritto a difendersi né con la stessa sicurezza di Israele. Doveroso dirlo. Anche se a futura memoria.

ISRAELE, UCRAINA; UNITI NELLA LOTTA?

È quello che pensa Biden. Ed è anche quello che vuole Zhelensky. A mancare, però, è il consenso di Israele, ivi compreso l’attuale governo. Così questo continua a procrastinare la visita del Nostro (detto e ripetuto: “sarà il benvenuto ma non ora”). Così, ancora, l’affermazione ucraina secondo la quale Mosca appoggerebbe Hamas è stata smentita con sdegno dall’ambasciatore israeliano a Mosca. Così ancora Israele era, e resta, il paese che non ha condannato Mosca per l’annessione della Crimea né inviato aiuti militari all’Ucraina in questo periodo. E questo semplicemente perché, l’Israele di Netanyahu coltiva, da anni, i rapporti con la Russia, per i legami dovuti all’immigrazione ma anche, e soprattutto, nel riconoscimento del suo ruolo di controllo se non di contrasto dell’estremismo sciita e sunnita.

Gli ucraini dovranno allora “farsene una ragione”. E rendersi conto del fatto che, con la marea montante della crisi in Medio oriente diminuirà parallelamente il sostegno alla guerra e ai sogni di vittoria di Kiev.

È vero; questo la Von der Leyen non l’ha capito. Ma è la Von der Leyen…

OSTAGGI

Tocchiamo qui la vicenda più squallida- moralmente e politicamente- all’interno dell’attuale tragedia. Per capire cosa sta succedendo dobbiamo, per prima cosa, aver chiaro chi sono questi ostaggi. Abbiamo, su un totale complessivo di circa 240/250 persone, 50 lavoratori agricoli thailandesi; e, per il resto, abitanti dei kibbutz, ostilissimi a Netanyahu e sostenitori della convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi e giovani ebrei stranieri o dalla doppia nazionalità (partecipanti al “rave party”).

Alcuni di loro sono stati rilasciati senza condizioni. Altri, circa 50 persone, sono morti causa bombardamenti, senza che nessuna autorità si curasse di sapere i loro nomi.  Altri ancora, quelli con passaporto straniero, sono oggetto di un negoziato cui Israele non partecipa. Mentre lo stesso Netanyahu (i familiari degli ostaggi hanno tentato di assaltarne la casa) ha detto no a qualsiasi tentativo di mediazione, contravvenendo ad una prassi seguita da sempre (salvare la vita dei suoi a qualsiasi costo) da Israele, anche perché corrispondente ai propri precetti religiosi.

L’idea è quella di liberarli, una volta localizzati con l’aiuto dei Navy seals americani.  Ma, ammesso e non concesso che questo sia possibile, quanti moriranno nell’operazione?

TERRORISMO/TERRORISTI

Come sapete, la collettività internazionale non ha raggiunto nessun accordo sulla definizione del reato. Mentre esistono, da sempre, convenzioni internazionali che dovrebbero bandire i “crimini di guerra”. Sulla base di queste convenzioni il Tribunale dell’Aja avrebbe dovuto aprire un’inchiesta su quello che è successo il 7 ottobre e dopo il 7 ottobre, magari per giungere a una rapida condanna. Con relativo mandato d’arresto internazionale. Ma, guarda caso, non risultano sue iniziative in proposito.

Per quanto riguarda, invece, il terrorismo e i terroristi, siamo al “fai da te”. Mestiere in cui eccellono i governi e, in particolare, quelli occidentali. Favoriti dal fatto che il terrorismo, leggi la guerra dei più deboli, è visibile; mentre i morti per i bombardamenti sono, e rimangono “effetti collaterali “e, quando va bene, numeri.

Ora, il “fai da te” porta ad eccedere. Leggi, a definire come “terroriste”, o complici del terrorismo le associazioni che difendono i diritti dei palestinesi o che si limitano a denunciare gli abusi compiuti da Israele nei loro confronti (a partire da Amnesty e Human Rights Watch)

Il terrorista, però, non lo è, come il diamante, per sempre. Può diventarlo. Ma può perdere questo status. E gli può accadere di diventare capo del governo o dello stato, come in Irlanda e in Sud Africa e in altri paesi ex coloniali o come lo stesso Arafat.  

Un precedente che potrebbe, magari, tornare a essere attuale.

TIFO/TIFOSI

Il minimo che si possa dire è che recano danni alla loro stessa causa.

Così, il governo francese ha indetto una grande manifestazione contro l’antisemitismo. Un’occasione, tra l’altro, per mettere sotto accusa la sinistra che ha rifiutato di aderirvi; magari perché lo stesso zelo non si applica all’islamofobia. Ha aderito però La Le Pen. Mettendo in crisi il carattere unitario della manifestazione; e, quindi, il suo significato.

Quattromila accademici italiani hanno deciso di sospendere i loro rapporti con le università israeliane in segno di protesta per quello che accade a Gaza. Non sarebbe stata molto meglio una lettera/appello rivolta ai loro colleghi, molti dei quali si oppongono alla guerra/vendetta?

Alberto Benzoni

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