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Ustica e la memoria storica italiana

Pubblicato: 07-09-2023
Rubrica: Tempi Moderni
Ustica e la memoria storica italiana

La memoria storica di un popolo può essere di due tipi. C’è quella comune: che porta a ricordare, collettivamente, lo stesso tipo di fatti. Ma c’è anche, anche se è molto più rara, quella condivisa; quella che porta la stragrande maggioranza della popolazione a vedere questi fatti allo stesso modo.
Ciò posto, quello che contraddistingue e rende più debole la nostra comunità nazionale è la mancanza sia dell’una che dell’altra. Che porta, tra l’altro, a rimettere automaticamente in discussione anche le “verità giudiziarie”. Che si tratti della morte di Moro o della strage di Bologna. Delle vicende di Mani pulite o dei tanti scandali annunciati con clamore e ben presto evaporati.
A creare questa situazione una serie di fattori strutturali tutti presenti nel caso di Ustica. La disponibilità o, se volete, la sudditanza psicologica di magistrati e politici nei confronti delle indicazioni o dei suggerimenti che vengono dall’alto; o, peggio ancora, trattandosi di un paese ad autonomia limitata, degli ambienti militari e politici rispetto ai vincoli della Nato e dei rapporti con i più importanti stati membri. Il giornalismo d’inchiesta ridotto a pratica eroica quanto solitaria. I vari archivi chiusi a studiosi e ricercatori, spesso per ragioni di puro potere, se non peggio. I pregiudizi o i depistaggi che bloccano per lungo tempo la ricerca della verità. E infine - non si insisterà mai abbastanza su questo punto - la totale mancanza di reazione che, dal caso Mattei a quello Regeni, ha caratterizzato l’atteggiamento di governi e istituzioni di fronte alle offese subite da stati esteri, direttamente o tramite i loro servizi.
Non sorprende, allora, che la bufera sollevati dall’intervista di Amato a Repubblica si sia limitata a interrogarsi criticamente sull’Autore e sulle sue motivazioni; senza tener conto della sua personalità e dei suoi argomenti.
Ora è proprio da questi che dobbiamo partire; per poi allargare il discorso ai socialisti e a quella particolare ricerca della verità che gli ha contraddistinti negli anni che hanno accompagnato la fine della prima repubblica.
Il Nostro non è secondo a nessuno nel capire e seguire il corso della storia e i processi politici così da adeguarvi le sue precedenti posizioni. Ma ciò non fa di lui un professionista a contratto e nemmeno un traditore da quattro soldi o un volgare voltagabbana mosso da interessi personali. Il suo modello non è Jago ma semmai Talleyrand: diversi, se non opposti i suoi punti di riferimento nel corso del tempo; uguale la sua visione del paese, dei suoi interessi di fondo e del suo ruolo nel mondo. In più, rispetto a questo modello, il senso del tragico, leggi la capacità di vedere i limiti e le insite debolezze di quella visione del mondo che egli stesso aveva contribuito a creare e di cui per lungo tempo ha mancato di contestare gli effetti.
Di qui il bisogno di parlare, di testimoniare “pro veritate”, fattosi crescente nel corso degli anni con l’approssimarsi del muro del definitivo silenzio.
In questo quadro le molteplici critiche mosse all’intervista e alla successiva replica - l’essere priva di pezze d’appoggio, l’errore fattuale sul ruolo di Craxi, l’essersi successivamente “rimangiato tutto”, l’attacco irresponsabile alla Nato e ai militari - mancano completamente il bersaglio. Vediamo perché.
Cominciamo col dire che Amato non disponeva né poteva disporre di pezze d’appoggio, leggi di prove circostanziate a sostegno della sua “verità storica”. Perché, se le avesse avute e tenute nascoste, l’intervista di oggi sarebbe diventata un’autodenuncia a scoppio ritardato e l’appello a Macron un semplice e inutile artifizio retorico.
A confermare, per altro verso, questa verità, è proprio il già citato “errore fattuale”. Ovvio che Craxi, nel 1980 semplice segretario del partito, non era in grado di avvisare Gheddafi dei rischi che correva allora nel suo progettato viaggio a Varsavia. Resta però il fatto, ricordato, ancora su Repubblica, da Vento, consigliere diplomatico dello stesso Amato, quando era presidente del consiglio: Gheddafi in procinto, nel 1980, di recarsi a Varsavia è stato dissuaso proprio dai servizi segreti italiani, sulla base di informazioni di cui già allora disponevano.
E qui veniamo al pezzo mancante del nostro puzzle. Alla famosa intesa siglata dal colonnello Giovannoni con esponenti della resistenza palestinese. Da una parte un occhio di riguardo sulle loro attività sul territorio italiano; dall’altra la garanzia che questo sarebbe stato risparmiato da qualsiasi azione terroristica così come dai relativi preparativi. Un accordo considerato con orrore dai moralisti a costo zero e dagli atlantisti senza se e senza ma. Ma che ha funzionato alla perfezione sino a oggi e senza danneggiare nessuno: nessuno spazio per l’azione jihadista in territorio italiano; l’Italia stessa immune da attacchi terroristici da quasi cinquant’anni. Aggiungendo, e qui la verità storica prevale in modo decisivo su quella giudiziaria, che l’esistenza stessa di questo accordo, escludeva in partenza l’ipotesi di un attacco deliberato e contro un aereo civile italiano. Rimanendo, a questo punto, l’unica ipotesi possibile quella dell’errore materiale.
Ciò detto sui fondamentali, il successivo intervento di Amato ricalca e precisa i contenuti della prima (nessuna marcia indietro, dunque); sottolineando, semmai, con maggiore forza il valore etico e politico della ricerca della verità. Mentre l’accusa di attentato all’onore delle forze armate e ai valori dell’atlantismo fa semplicemente parte dell’armamentario ideologico a disposizione della destra al potere. Che, sia detto per inciso, la Meloni si è ben guardata dall’avallare.

Nel nostro caso, dunque, gli elementi della verità storica sono tutti presenti. Dal depistaggio iniziale del “cedimento strutturale” (che determinò la liquidazione dell’Itavia), alla fola della bomba, fino alla mancata presa in considerazione di ciò che era assolutamente evidente: che, una volta scartata perché completamente arbitraria l’ipotesi della distruzione deliberata, rimaneva soltanto quella dell’errore.
Inutile, però farsi delle illusioni. Tra qualche giorno o tra qualche settimana, nessuno parlerà più dei passeggeri dell’Itavia e del loro bisogno di giustizia e soprattutto di verità. E per le ragioni che abbiamo ricordato all’inizio di questa nota.
Ci limitiamo quindi, in conclusione, ad aggiungerne un’altra. Il fatto che a bloccare la ricerca di verità condivise è stato anche, nel corso del tempo, l’uso strumentale di questa ricerca al servizio di pregiudizi ideologici o di interessi di partito o di gruppo. E basti pensare, a questo riguardo alle “stragi di stato”, alla “questione morale” e soprattutto all’interpretazione che della vicenda Moro darà il Pci, sino a portarlo, anni dopo, ad aderire, senza se e senza ma, alla controrivoluzione di Mani pulite.
Doveroso, allora, ricordare, in primo luogo a noi stessi, che il Psi si muoverà, anche a suo danno, in tutt’altra direzione. Che potremmo definire nel segno del revisionismo. O, più esattamente, di quella vera e propria rivoluzione culturale avviata all’indomani del Midas.
C’è qualcosa che unisce i vari elementi di questo percorso. Che si tratti del Vangelo socialista o del caso Tobagi. Di Ustica o del “governo dei tecnici e degli onesti”. Del pacifismo o della questione palestinese. Ed è la reazione istintiva e qualche volta fuori misura contro il falso. Leggi contro un sistema caratterizzato dalla non corrispondenza tra le parole e le cose.
Mani pulite sarà il coronamento di questo sistema. E il Psi, assieme al suo leader, ne uscirà distrutto.
Ragione di più per ricordare agli immemori quelle lontane vicende.

Alberto Benzoni
Roberto Biscardini

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