Brandizzo, cinque vittime del neocapitalismo criminale
I loro non sono volti noti della tv, o vincitori di quiz, personaggi del cinema, “influencer” e neppure “navigator”, non sono mattatori della Rete, che primeggiano nella raccolta dei “like”: sono soltanto degli operai. Operai uccisi nella notte del 31 agosto, mentre erano intenti a un lavoro di manutenzione sulla linea ferroviaria Torino-Milano, a pochi chilometri dal capoluogo piemontese, a Brandizzo, toponimo che diverrà tristemente famoso, d’ora in avanti, soltanto per questo “incidente”.
Ecco i loro nomi, che vorrei fossero incisi a lettere di fuoco nel nostro cuore. Kevin Laganà (22 anni), Michael Zanera (34), Giuseppe Sorvillo (43), Giuseppe Aversa, (49), Giuseppe Lombardo, il più "vecchio", di anni 53. Il mio timore è adesso che la colpa sarà addossata tutta ai macchinisti del treno che ha investito i cinque, straziando i loro corpi. Certo leggeremo parole di cordoglio, e ne abbiamo già sentite, a partire da quelle di Mattarella, recatosi, lodevolmente, sul posto, approfittando della sua presenza in Piemonte. Qualche sciopero di protesta è stato proclamato. Tutti promettono o minacciano: “Mai più morti sul lavoro”. Ma la tendenza è un aumento costante, irrefrenabile degli “incidenti”.
Bertolt Brecht scriveva: “Il capitalismo è stupido”. Oggi possiamo precisare: “Il turbocapitalismo è criminale”. Questo incidente, questa piccola strage notturna di fine agosto è soltanto una nuova tessera in un mosaico dell’orrore. Un orrore che certo accompagna il capitalismo industriale sin dal suo sorgere (basti ricordare quello che scriveva Engels sulle fabbriche tessili in Inghilterra intorno a metà ‘800), ma che ha avuto una formidabile, tremenda accelerazione con il neoliberismo, teorizzato dai “Chicago Boys”, ossia Milton Friedman, sodali e allievi, nel Secondo dopoguerra e che ebbe poi in Ronald Reagan e in Margareth Thatcher i suoi interpreti. Davanti alla crisi che colpiva il sistema negli anni ’70, Reagan nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca (198o) usò queste parole: “Lo Stato non è la soluzione. Lo Stato è il problema”.
Era l’invito a smantellare tutto ciò che era pubblico, e esaltare tutto ciò che era privato, e quindi una sollecitazione a privatizzare: un invito che era piuttosto un “ukaze”, che non poteva essere messa in discussione dagli “alleati”, ossia i servi volenterosi dell’Impero. Si iniziò così, di là e di qua dell’Atlantico a smantellare gli importanti risultati raggiunti nei “trenta gloriosi” ossia i tre decenni successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale, che avevano visto la costruzione dello Stato sociale e una applicazione delle politiche keynesiane, ossia di intervento pubblico, a favore dei più deboli, e di uno sviluppo non troppo iniquo dell’economia. La nazionalizzazione delle ferrovie, che risaliva ai tempi di Giovanni Giolitti (il liberale Giolitti, sospinto dai socialisti), come negli anni ’60, quella dell’energia elettrica, e della telefonia, furono i punti salienti di uno Stato che non rinuncia ad essere tale, regolatore, gestore, e all’occorrenza, imprenditore.
La “scuola di Chicago” e i suoi supini imitatori italiani, andarono nella direzione opposta, con il favore di una sinistra che intanto aveva iniziato a smettere di “fare” la sinistra, diventando un insieme di figure scialbe quanto arroganti, rappresentanti di partiti politici che, su mandato di gruppi imprenditoriali e finanziari, spingevano sull’acceleratore della privatizzazione, dell’aziendalizzazione, e ahinoi, della regionalizzazione. L’efferata logica degli appalti edei subappalti, in una catena che ricorda quella del feudalesimo, fu uno degli strumenti, e le morti sul lavoro, cioè gli omicidi di lavoratori e lavoratrici, ne furono la tragica quanto logica conseguenza. Ridurre il personale e i controlli, per diminuire le spese e aumentare i profitti degli investitori, velocizzare le procedure, assumere per brevi periodi e con meno garanzie possibili uomini e donne, il tutto in nome del “Sacro Mercato”. Decisamente più sacro di quanto venga considerata la vita di persone, i cui nomi non saranno ricordati nel gotha del progresso, ma almeno impariamoli noi, a memoria, e facciamone i “testimonial” di una fase nuova di impegno contro questa strage continua.
Angelo d'Orsi
da Il Fatto Quotidiano
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