Addio a Napolitano, da Botteghe Oscure al socialismo europeo
Nella biografia che Paolo Franchi gli dedicò per Rizzoli nel 2013, sul finire del primo settennato al Quirinale, il ritratto più compiuto di Giorgio Napolitano, scomparso a 98 anni, lo tracciò Rino Formica, antico e pugnace socialista che anche negli anni drammatici della “guerra civile” a sinistra aveva sempre dialogato intensamente con l’ala riformista del Pci. Interrogato da Franchi sui possibili ancoraggi che ancora a quasi 90 anni mantenevano Napolitano saldamente al centro della scena politica, Formica ne individuava più di uno. La solida formazione crociana. L’Europa. Vissuta come una religione laica fin dagli anni giovanili. Infine, la bussola del costituzionalismo liberale: “Almeno in parte glielo ha lasciato in eredità, basta rileggersi i suoi interventi alla Costituente, Palmiro Togliatti”. Aveva ragione il vecchio Rino. D’altronde, Napolitano è stato, con Emanuele Macaluso, scomparso due anni e mezzo fa, uno degli ultimi homines togliattiani sopravvissuti al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In anni drammatici, contrassegnati da una congiuntura politica che ha visto il lento, inarrestabile e precoce declino di un’intera generazione di dirigenti ex comunisti (quella formatasi sotto la gestione berlingueriana del partito) ha continuato a rappresentare, lui che è stato eminentissimo e molto influente uomo politico per tutta la vita ma mai leader di partito (sfiorò la segreteria nel '68, ma gli fu preferito Berlinguer), un imprescindibile punto di riferimento per tutta la sinistra riformista e democratica non solo italiana, ma addirittura mondiale. Ancora quando era inquilino della Casa Bianca, “snobbando” i propri coetanei Veltroni e D’Alema, Barack Obama, vale a dire il più potente tra i leader d’area progressista di ultima generazione, si fidava solo delle sue analisi sui progressi e le criticità del processo d’integrazione europea e sulla pesantissima crisi che investì l’area euro durante la sua presidenza.
Napolitano stesso aveva ricostruito in un libro dato alle stampe nell’immediata vigilia della sua prima elezione al Quirinale l’esemplarità di una parabola il cui approdo definitivo, il socialismo europeo, gli aveva permesso di entrare con passo sicuro, per certi aspetti addirittura spavaldo, nella complessa modernità sorta dalle ceneri del “terribile” ‘89 molto prima di tantissimi suoi compagni di partito più giovani. Soprattutto, senza rinunciare ad una sola delle idee e ad alcuno dei valori che avevano ispirato, fin dagli anni giovanili, la sua lunghissima militanza nel più “socialdemocratico” dei partiti comunisti d’Occidente. E se è vero che solo sul finire della carriera riuscì a conquistare, quasi suo malgrado, le insegne di una leadership in partiti (Pci-Pds-Ds) nei quali alla fine si era semplicemente limitato a presidiare un’area politico – culturale, è altrettanto vero che questo ruolo di guida e orientamento non nacque affatto da un capriccio del caso, o della Storia. Perché il fallimento del progetto Pd, o meglio, di un “certo” Pd, vale a dire di un partito immaginato (e costruito) più “come somma che sintesi”, aveva apposto il sigillo definitivo alla crisi epocale di un’intera generazione di dirigenti di provenienza Pci. I quali, forgiati al fuoco del tremendo conflitto che divampò a sinistra all’inizio degli anni Ottanta, maggiormente si erano adoperati dopo l’89 per la liquidazione coatta e completa della “questione socialista”: da Occhetto, a Veltroni, allo stesso D’Alema. Da socialista europeo, al congresso di scioglimento del Pci, nel 1991, presentò un documento in cui, in contrasto sia con la linea “oltrista” di Occhetto che con il fronte del “no”, aveva indicato con chiarezza il socialismo come unico approdo possibile per gli ormai ex comunisti. Lo seguirono in pochi. L’eco della guerra civile a sinistra (che non l’aveva mai coinvolto: memorabile un suo articolo su l’Unità in cui prese pubblicamente e duramente le distanze dalla linea ferocemente antisocialista di Berlinguer, sfociata nel clamoroso intervento alla Camera dell’agosto 1983, durante il dibattito sulla fiducia al governo Craxi, in cui il segretario comunista arrivò a definire il premier designato e il suo partito altrettanti “pericoli per la democrazia”) era ancora fortissima.
Da Capo dello Stato costretto, contro il suo volere, a trasformarsi in “monarca repubblicano” dalla crisi sistemica in cui si era infilata la nostra democrazia al culmine dell’infinita transizione iniziata nel biennio ’92-’94, fece – né più e né meno – quello che avrebbe fatto qualsiasi dirigente politico della sua generazione. Invece di avvitarsi nei tatticismi e inseguire le convenienze che nella consuetudine repubblicana hanno spesso ridotto il Quirinale a uno studio notarile, agì, sempre però nel rispetto della Carta. E ciò gli è costata l’ostilità postuma sia della destra che di un pezzo della sinistra, quella più lontana dalla sua sensibilità. A destra non gli hanno mai perdonato l’operazione con cui, nel 2011, disinnescò politicamente la pericolosa e permanente anomalia Berlusconi, prima che arrivassero le sentenze giudiziarie che lo avrebbero azzoppato definitivamente. A sinistra, con non poca ipocrisia, gli è stato rinfacciato un atteggiamento troppo accondiscendente verso Renzi, la scelta di Monti per sostituire il Cavaliere a Palazzo Chigi, l’eccessivo “interventismo” in materia di riforme a discapito dell’autonomia del Parlamento. E’ significativo come entrambe – destra e sinistra cosiddetta radicale – abbiano da un certo punto in poi usato il medesimo argomento per attaccarlo: la posizione assunta nel lontanissimo 1956 a sostegno dei carri armati sovietici che repressero la rivoluzione operaia e socialista di Budapest. Un’accusa ingiusta e strumentale, che non teneva conto né della profonda autocritica che egli aveva fatto sul punto né – vista da sinistra – della circostanza che nel 1956, con la sola eccezione di Peppino Di Vittorio tutto il gruppo dirigente comunista, Ingrao compreso che da direttore de l’Unità scrisse un tremendo fondo di condanna dei “controrivoluzionari ungheresi”, si allineò alla linea di Togliatti. Ma tant’è. La sua professione di fede nella democrazia e nei valori della Costituzione Giorgio Napolitano l’avrebbe ribadita nel celebre discorso di insediamento del secondo mandato, quando di fronte al Parlamento usò espressioni sferzanti e parole durissime verso l’inconsistenza della politica e dei partiti che ancora oggi concorrono a formare una delle analisi più lucide e spietate del fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica.
Nato a Napoli nel 1925, dopo gli studi liceali si era laureato alla Facoltà di Giurisprudenza della Federico II esattamente come i due concittadini che l’avevano preceduto sul Colle più alto della Repubblica, e cioè Enrico De Nicola e Giovanni Leone. Ma, a differenza loro non intraprese – se non per un brevissimo periodo – la professione forense. Comunista fin dal 1945, componente del gruppo detto “dei ragazzi di Monte di Dio” raccoltosi subito dopo la guerra intorno alla rivista “Sud” di Pasquale Prunas (che aveva la redazione nei pressi della Nunziatella), e di cui facevano parte anche Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Peppino Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Annamaria Ortese, Luigi Compagnone, Francesco Compagna e molti altri, il giovane Napolitano, più che dai Codici, fu folgorato dalla politica, dal teatro (scriverà anche dei testi) e dalla letteratura. Nel partito napoletano crebbe sotto l’ala protettrice di Amendola, e l’incontro con “Giorgio ‘o chiatto” sarebbe stato decisivo per la formazione politica e culturale di “Giorgio ‘o sicco” (così scherzosamente definiva i due Miriam Mafai), caratterizzandone tutto il percorso all’interno del Pci. Erroneamente e troppo frettolosamente definita la “destra” del partito, la corrente “migliorista” - di cui Napolitano sarà, con Emanuele Macaluso, Gerardo Chiaromonte e Paolo Bufalini uno dei leader – è stata, in realtà quella che si è posta con maggiore coerenza in continuità con il Togliatti della “vita italiana al socialismo” e della “democrazia progressiva”. Era un’impostazione che al centro aveva l’irriducibilità del rapporto unitario con i socialisti. Napolitano, come d’altronde Macaluso, è stato fedele a questa impostazione tutta la vita. Ha perso nel partito ma quando è stato il partito a sua volta a smarrirsi, come tutti i fuoriclasse, è rimasto in piedi solo lui. Fino alla fine.
Noi di Critica Sociale ci sentivamo legati a lui non solo da sentimenti di vicinanza politica e ideale, ma anche da un vincolo di gratitudine e riconoscenza. Quando, nel 2011, l'allora direttore Ugo Finetti, lo interpellò ricordandogli che in quell'anno ricorreva il 120esimo anniversario della storica rivista fondata da Filippo Turati, non ebbe alcuna esitazione a concedere l'alto patronato della Presidenza della Repubblica.
Ancora grazie, compagno Napolitano, ti sia lieve la terra.
Massimiliano Amato
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