I principi della Carta e il vento primitivo del plebiscitarismo
Il costituzionalismo democratico si afferma con la crisi dello Stato nazione, con la fine della prima guerra mondiale, che aveva visto lo scontro tra le democrazie liberali emergenti da una parte, e gli Imperi dell’Europa centrale, e quello che restava dell’Impero ottomano, dall’altra. Ma soprattutto, si era consumato uno scontro tra soggetti sovrani nazionali (imperiali, federali, unitari) che fondavano il loro potere sul rapporto immediato e diretto con il popolo, su quella minoranza di cittadini, alla quale venivano riconosciuti i diritti politici, senza limiti e senza garanzie per le minoranze.
Sistemi primi di qualsivoglia forma pluralista, tesi a riconoscere alla maggioranza, alla legge un potere illimitato privo di garanzie per le opposizioni. Ma soprattutto, modelli fondati sull’onnipotenza del legislatore, ovvero della maggioranza. Tocqueville, già anni prima, non aveva esitato a parlare, all’interno delle giovani democrazie liberali, ancora molto acerbe, del rischio della tirannia della maggioranza, ovvero di un potere legittimato da una parte del popolo in grado di impossessarsi del potere in maniera illimitata e senza garanzie per le minoranze.
Questa idea, fatta propria dagli Stati nazione, della legge sopra tutto e tutti, crolla con la fine della guerra mondiale. E sono soprattutto gli Stati, sorti dalle ceneri della disgregazione degli Imperi dell’Europa centrale, penso alla Germania, all’Austria, alla Cecoslovacchia che sentono l’esigenza di costruire dei modelli costituzionali, nell’ambito dei quali, chi detiene il potere non sia onnipotente, non debba rispondere soltanto al popolo, ma sia sottoposto a principi sovraordinati, che trovano base in un testo che si ponga al di sopra della legge e dell’azione legislativa del Parlamento: la Costituzione.
Penso ovviamente alle 3 grandi Costituzioni approvate tra il 1919 e il 1920 quali Weimar, Praga, e Vienna. Si basavano, con le dovute differenze, su un principio quale la limitazione del potere, evitare che il potere, in forza dell’investitura popolare, potesse essere dominante, onnipotente, ovvero diventare tiranno.
La maggioranza parlamentare - anche gli organi eletti, monocratici o collegiali - deve essere sottoposta a principi costituzionali, nasce così l’idea della Grundnorm, ovvero di una legge fondamentale sovraordinata al potere politico. La politica va subordinata ai principi giuridici supremi, ma soprattutto, per controllare il rispetto della costituzione, sono istituite, per la prima volta, le Corti costituzionali (in realtà c’era stato un precedente nel 1867 con la costituzione della Reichverfassungsgerichtehof voluta da Franz Josef subito dopo la sconfitta con la Prussia) . Nasce così il costituzionalismo democratico, tra mille difficoltà, di natura geo-politica, sociale, economica, e forse anche troppo avanti nelle idee e nel progetto culturale rispetto al contesto successivo alla prima guerra mondiale, ma comunque tale modello rappresenterà un punto di non ritorno, capace anche di risorgere dopo le dittature nazifasciste. Un modello, che mai come in questo momento storico, va difeso dalle derive autoritarie e plebiscitarie di concentrazione autoritaria e antipluralista del potere.
Quelle tre citate Costituzioni, fondate sul limite al potere, sulla separazione dei poteri, sulle garanzie costituzionali, sulla democrazia della rappresentanza, sul pluralismo, sull’alternanza al potere, costituiscono, pur con le dovute differenze, le basi per la Costituzione francese della quarta Repubblica (1946) – prima dell’insorgere bonapartista della quinta Repubblica (1958) – per la Costituzione italiana del 1948 e per la Costituzione di Bonn del 1949.
Kelsen, uno dei grandi protagonisti della stagione del costituzionalismo democratico successivo alla prima guerra mondiale, chiarisce, in forte contrasto con un altro grande giurista tedesco, Carl Schmitt, che il primato del Parlamento va in ogni caso ricondotto nei limiti e nel rispetto dei principi costituzionali.
I sistemi costituzionali democratici devono basarsi sulle garanzie di tutela delle minoranze e delle opposizioni, evitando l’insorgere di occupazioni del potere sine limite o comunque in grado di incancrenire il sistema.
Schmitt la pensava diversamente, ma è stato anche un giurista molto vicino al regime nazista. Anche la radice del pensiero di Rousseau, basata su la loi manifestation de la volonté générale si ridimensiona nel costituzionalismo democratico di cui alla Costituzione del 1948, nella quale anche la sovranità popolare, di cui all’art.1, è esercitata comunque nei limiti della Costituzione. Ovvero nel rispetto delle garanzie costituzionali che hanno quale obiettivo di porre al centro appunto il popolo e non lo Stato, passando dalla sovranità statuale o nazionale alla sovranità popolare, ma allo stesso tempo di evitare un rapporto tirannico, escludente ed antipluralista tra popolo ed eletti.
E per evitare ciò, che l’impianto complessivo della nostra Costituzione si oppone, in particolare per gli organi eletti direttamente dal popolo, quindi titolari della funzione di indirizzo politico, a mandati elettorali ad libitum, sine die.
Tuttavia, la distorsione populistica della sovranità popolare induce sempre più il mondo politico delle istituzioni a subordinare principi costituzionali, faticosamente raggiunti, ad obiettivi dettati sempre più da ambizioni di potere localistico, personale e primitive quali: basta che sia d’accordo il popolo o d’altronde il popolo ha sempre ragione.
C’è addirittura chi (presidenti di regione, sindaci di varie parti d’Italia e di differente colore politico) è arrivato ad affermare che proibire la rieleggibilità, nelle regioni e nei comuni, «significa dare degli idioti agli elettori». Tutto dovrebbe essere lasciato al potere dei voti, quindi le conquiste del costituzionalismo democratico, fondate proprio, come abbiano evidenziato, sulla limitazione del potere e quindi di rinnovi eccessivi del mandato elettorale, sembrano subire, sommersi da uno tsunami plebiscitario, una preoccupante regressione.
Ainis di recente ha evidenziato come il primato del popolo potrebbe determinare regni come l’imperatore Adriano (21 anni); oppure uno di meno, come Mussolini. Ma questo ragionamento sui plebisciti popolari ci porterebbe lontano: da Ponzio Pilato a Hitler e perché no a Putin.
E torniamo, allora per concludere, ancora una volta alle garanzie costituzionali, alla subordinazione del potere legislativo ai principi costituzionali, ai limiti della politica al diritto. Proprio, in quest’ottica, la Corte costituzionale, baluardo dei valori democratici della Costituzione (e proprio per questo motivo attaccata da Schmitt negli anni Venti nella sua polemica contro Kelsen), di recente ha chiarito, una volta per tutte, che il legislatore, nell’esercizio della sua azione politica, si deve muovere nel perimetro costituzionale. In particolare, con la recente sentenza n. 60 del 2023, ha annullato una legge della Regione Sardegna che estendeva il limite a quattro mandati. La Corte, sulla base dei principi costituzionali, ha affermato che il divieto dopo due elezioni consecutive rappresenta «un temperamento di sistema rispetto all’elezione diretta dell’esecutivo e alla concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva». Tale divieto tutela il diritto di voto dei cittadini, «impedendo la permanenza per periodi troppo lunghi nell’esercizio del potere di gestione degli enti locali, che possono dar luogo ad anomale espressioni di clientelismo». Ricordiamoci: le conquiste democratiche sono faticose da raggiungere, ma basta poco per regredire.
Alberto Lucarelli
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