Critica Sociale - Portale della Rivista storica del socialismo fondata da Filippo Turati nel 1891
Critica Sociale ha ottenuto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica

La nuova Critica Sociale tra tradizione e futuro

Pubblicato: 13-12-2023
Rubrica: Editoriale
La nuova Critica Sociale tra tradizione e futuro

Con questo numero la nuova serie della Critica Sociale doppia la boa del suo primo anno di attività. Quando, dodici mesi fa, decidemmo di riprendere le pubblicazioni della rivista teorica fondata nel 1891 da Anna Kuliscioff e da Filippo Turati, l’obiettivo che avevamo di fronte era uno, e uno solo. Coincidente con quello che il socialismo italiano è stato costretto più volte a porsi nel corso della sua ultracentenaria storia, per le più svariate ragioni: “Primum vivere”. Non solo siamo riusciti a centrarlo, con pochissime risorse e ancor più scarsi mezzi, ma addirittura abbiamo visto crescere, settimana dopo settimana, mese per mese, un’attenzione verso il nostro lavoro che, in tutta franchezza, nessuno di noi osava pronosticare al momento della ri-partenza. Senza contributi pubblici (e nemmeno privati), basandoci solo sull’autofinanziamento derivante dagli abbonamenti e dalle vendite, queste ultime legate all’esclusivo canale commerciale del nostro sito web, in così poco tempo abbiamo raccolto intorno a una testata gloriosa ma ferma da qualche anno una comunità coesa e battagliera che discute, riflette, analizza, s’interroga su quanto avviene in Italia e nel mondo. Cercando le risposte nella propria storia, nel proprio codice genetico, nel proprio patrimonio di valori e di idee. Mutatis mutandis, continuiamo a sentirci come il gruppo dei primi fondatori, che nell’editoriale di bilancio del primo anno di pubblicazioni, sul numero 18 del 18-20 dicembre 1891, scrivevano: “La questione sociale – questa Sfinge – per la prima volta nella storia ha preso intero possesso del cervello umano, così che vano sarebbe ogni sforzo per cacciarmela fuori. Ma, di fronte a quest’ospite inatteso e pieno di esigenze, la coscienza dei più resta inquieta, incerta e confusa. Come l’antico filosofo errava alla ricerca dell’uomo noi brancoliamo un po’ tutti alla ricerca più o meno affannosa della nostra coscienza; di una coscienza sociale che ci permetta di assistere, attori operosi e sereni – e non soltanto spettatori passivi o subbietti incoscienti – al dramma sociale che incombe sul teatro della storia”. 

***

Se le cifre della rivista cartacea sono confortanti quelle del sito web, che nell’intervallo tra un numero e l’altro è un’agorà aperta nella quale si sviluppano appassionati dibattiti sulle principali questioni del mondo contemporaneo, sono addirittura entusiasmanti, con picchi di traffico ch’erano semplicemente impensabili quando decidemmo di rilanciarlo. Pur custodendo gelosamente il suo cuore antico, anzi facendone il proprio principale punto di forza, “la Critica”, come i socialisti hanno sempre affettuosamente chiamato la loro storica rivista, non teme la modernità, per cui anche sui social essa ha ormai una presenza importante, con un seguito in costante aggiornamento. Questa (lunga) premessa per dire che dal nostro osservatorio ci si è accorti, non senza sorpresa, che la vecchia talpa non ha mai smesso di scavare. S’intravede, tra le nebbie che lo circondano, l’esistenza di un campo di elaborazione politica e culturale – quello per il socialismo: il socialismo tout court, senza ulteriori e inutili specificazioni – che chiede solo di essere dissodato con cura dalla gramigna che attualmente lo infesta, coltivato, innaffiato, reso fertile. Con quale strumento è presto detto: un grande, autorevole, forte Partito Socialista. Una prospettiva che adesso in Italia non esiste, o è schiacciata in un angolo dalla destra, il cui attuale dominio è frutto della lunga costruzione di una raffinata forma di egemonia nel discorso pubblico. Ma è qualcosa che non si vede all’orizzonte nemmeno valutando la questione da un’ottica di sistema, considerato che l’ultima, traumatica ricomposizione del quadro politico successiva alla vittoria elettorale delle destre rischia di diventare strutturale per le capacità anfibie con le quali gli attori in campo galleggiano nella grande liquidità tracimata negli invasi della democrazia italiana. Sì, è vero: sulla carta c’è un partito, il Pd, che è membro del PSE. Partecipa alle sue riunioni, come recentemente a Malaga, ne condivide lo spazio fisico nell’emiciclo di Strasburgo (anche se con una propria, distinta identità: il gruppo si chiama infatti “Socialisti e Democratici”), si sforza di condividerne le battaglie. Ma sul terreno dell’impostazione ideale continua a prevalere l’originaria ispirazione: vaga, confusa e contraddittoria. Troppo poco. La sinistra che rimane, oltre il Pd – dai Cinque Stelle all’alleanza rossoverde – avrebbe senz’altro caratteristiche più interessanti, se non fosse che in un caso (i Cinque Stelle) l’elemento dell’antipolitica continua a rappresentare una zavorra che appesantisce il cammino e rende confusa la meta, mentre nell’altro (Verdi e Sinistra Italiana) a prevalere, più che il progetto, sembra essere l’istinto di sopravvivenza. Questo per le forze rappresentate in Parlamento. Fuori di esso, la galassia dei gruppi che si dicono socialisti – o che dichiarano di muoversi in quell’orizzonte ideale di lotte e di impegno politico, è vasta e articolata. Niente di nuovo: è una caratteristica ultracentenaria della ditta, e marcia parallela con l’inveterata abitudine delle varie conventicole a rinchiudersi ciascuna nella propria bolla per fare l’esame del sangue a tutte le altre. E rivendicare per sé l’esclusiva titolarità dell’ingombrante eredità. C’è chi lo fa specificando che dirsi per il socialismo non significhi affatto candidarsi a governare il cambiamento, bensì aspirare a governare per produrlo in maniera radicale e netta, e a questi gruppi va il massimo rispetto e la nostra attenzione. E c’è chi invece cerca di appropriarsi e/o tenersi stretto il lascito identitario perché così si illude di avere maggiori possibilità di staccare il biglietto per qualche strapuntino o cadreghino purchessia: anche questo già visto e sperimentato in oltre un secolo di storia. La differenza con il passato è che oggi il termine “socialismo” è totalmente assente dalla narrazione politico-mediatica, e non solo quella mainstream. E nessuno dei gruppi che si muovono (o dicono di farlo) in quella prospettiva storico-ideale dà l’impressione di averne preso coscienza. Forse un buon punto di partenza per riaffermare le idee, il patrimonio di valori, il progetto del socialismo, sarebbe una battaglia con ogni mezzo per sdoganare il lemma. Almeno quello. Adoperarsi per farlo rientrare nel linguaggio politico corrente, dove è stato sostituito da una gamma di termini che vanno da “riformismo” a “progressismo”. Parole con una storia e una tradizione, nessuno lo nega, ma divenute ambigue per l’abuso che, almeno in Italia, se ne è fatto negli ultimi trent’anni. La timidezza (o consapevole vaghezza?) lessicale rappresenta una delle varietà di erba cattiva cresciuta nel campo socialista, giacché rappresenta un segno inequivoco del cedimento strutturale all’egemonia neoliberale intorno alla quale si è andato progressivamente formando il nuovo ordine economico, politico e sociale globale, produttore seriale di ferocissime diseguaglianze e primo motore delle orrende guerre che si combattono sotto i nostri occhi. Un ordine rispetto al quale il socialismo o si fa carico di rappresentare una radicale, inconciliabile alternativa, totalmente aliena da qualsiasi forma, ipotesi o idea di compromesso, oppure semplicemente non è. La Critica, nata alla fine dell’Ottocento come corrente politica e poi trasformata in rivista teorica capace di rappresentare un primo, sommario, punto di coagulo dei socialismi diffusi dell’epoca, è tornata soprattutto per ribadire questo. 

***

Lo scorso 25 novembre una marea di donne e uomini, in prevalenza giovani, ha invaso le strade di Roma per urlare il proprio no alla mattanza di genere. Non c’erano partiti, dietro, né sindacati: nessuna mobilitazione indotta, quindi, ma spontaneismo allo stato puro. È un grande segnale che va letto anche con uno sguardo rivolto al passato. In primis: il tema della protesta riguarda l’epocale emergenza antropologica con cui è costretta a fare i conti la civiltà occidentale. A parere del filosofo Massimo Cacciari, la più grande da cinque secoli a questa parte: il bestiale carico di violenza maschile che accompagna gli ultimi spasmi della società patriarcale, durata quasi duemila anni. Una deriva sanguinosa e terribile, rispetto alla quale l’ordine neoliberale ha responsabilità enormi, esclusive. Perché non riesce a arginarla, ma soprattutto perché ne è stato e ne è, per proprie intrinseche caratteristiche, un potente acceleratore e facilitatore. Volendo tralasciare gli aspetti psicologici per considerare quelli storico-politici, balza agli occhi come l’ormai conclamato divorzio tra società neoliberale e democrazia, consumatosi nel segno di un arretramento generalizzato di quella cultura dei diritti che aveva trovato una definitiva codificazione nelle costituzioni nate sulle ceneri dei totalitarismi novecenteschi e si era definitivamente affermata con i movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, abbia infiacchito la capacità di risposta, sia sociale che statale, al criminale sovvertimento che l’anacronistico statuto patriarcale infligge al naturale equilibrio della parità di genere. Conquiste che sembravano definitive sono tornate in discussione non formalmente ma, peggio, nella sostanza. E non si può ignorare come questo moto retrogrado abbia tra le proprie cause l’esasperazione dell’individualismo, la parossistica mentalità “performativa” indotta dal nuovo ordine e la competitività assunta a canone unico ed esclusivo delle relazioni umane. Di contro a tutto ciò, quella piazza ci ha ricordato le centinaia, migliaia, di altre piazze che mezzo secolo fa costituirono il principale propellente della civilizzazione democratica del Paese. Nella fase storica in cui si svilupparono, le lotte portate avanti dalla soggettività politica di massa dei movimenti (femministi, studenteschi, operai) incrociarono un moto riformatore che, pur tra molti limiti e contraddizioni, rappresentò una risposta, non banale e nemmeno debole, di cambiamento. Magari non riuscì ad assecondare completamente il “Vogliamo tutto” ritmato nei cortei e nelle manifestazioni di piazza, però si sforzò di erigere, con una legislazione avanzata e adeguata ai tempi mutati, un argine robusto alla caduta verso la barbarie. Si tratta ora di ricostruire il soggetto di massa, la “comunità di destino” organizzata che, dall’interno delle istituzioni, interloquisca con le piazze di oggi, rappresentandone il concreto sbocco riformatore. Cinquant’anni fa i socialisti occuparono un posto di primissima fila in pratica la posizione più avanzata nell’ideale schieramento delle forze parlamentari pronte a recepire le sollecitazioni della piazza: nacquero la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, l’abolizione del delitto d’onore; una legislazione che aveva tra i suoi scopi precipui quello di cancellare o almeno ridimensionare drasticamente lo spazio nel quale aveva piantato le proprie tende la società patriarcale. Non fu un caso, probabilmente, che essi si trovarono, in moltissimi casi, su posizioni più avanzate rispetto agli stessi comunisti: si trattava della sopravvivenza, all’interno della loro memoria genetica, di un ceppo marxista “critico” che fin dai primi anni Cinquanta aveva cominciato a legare la critica radicale al modello di sviluppo e ai rapporti di produzione capitalistici all’esigenza di una secolarizzazione della società italiana uscita dal tunnel del fascismo e non ancora rischiarata a sufficienza dal fascio di luce che era in grado di proiettare la Costituzione repubblicana. 

La “Critica” intende riprendere e essere uno degli strumenti di questa battaglia, in coerenza con il suo ultracentenario cammino. Nelle pagine che seguono troverete un articolo di Anna Kuliscioff pubblicato sul primo numero della rivista, il 15 gennaio del 1891. In esso, rispondendo alla lettera di una lettrice, la grande rivoluzionaria, medico e giornalista russa impartisce una lezione sulla genesi della violenza di genere che ci sembra ancora oggi di straordinaria attualità. E non è certo sull’onda degli ultimi avvenimenti, ma perché sia l’editore che la direzione avevano da tempo messo in cantiere la cosa per cercare di riparare a un piccolo torto storico, che da questo numero nel frontespizio della rivista, sotto la storica testata, il nome della compagna Anna affiancherà quello di Filippo Turati tra i fondatori. 

Massimiliano Amato

Condividi

Facebook Twitter WhatsApp Telegram E-mail

Ultimi articoli della rubrica...

Archivio...