Il gigante Matteotti nei ricordi di Tasca
Pubblichiamo un breve estratto da “Storia del Pci e storia d’Italia” di Angelo Tasca. In esso, uno dei fondatori del Pcd’I, fa uno straordinario ritratto di Giacomo Matteotti. Sottolineando tutte le ambiguità dei comunisti verso la linea dei socialisti unitari di intransigente opposizione al fascismo nei primissimi anni del regime, e l’iniziale indifferenza dei vertici della Terza Internazionale nei confronti della barbara eliminazione del segretario del Psu, nel 1924.
(…) Alla vigilia delle elezioni politiche la nuova direzione [del Pci] propose, nel gennaio 1924, un blocco di «unità proletaria», ai due partiti socialisti. Feci parte della delegazione comunista presieduta, se ben ricordo, da Gennari, che s’incontrò coi dirigenti massimalisti e unitari in una saletta di Montecitorio. Il nuovo Centro aveva preso tutte le precauzioni, nel testo delle lettere scritte ai socialisti, perché nessun accordo fosse possibile, pur assicurandosi il vantaggio dell’iniziativa pseudounitaria e quello, a cui il Centro teneva soprattutto, di poter denunziare una volta di più i «traditori». La questione andava ben al di là della tattica e Giacomo Matteotti lo affermò con grande e lucido vigore. Avevo ascoltato Matteotti nei congressi dei partiti, letto articoli suoi, ma non avevo mai avuto occasione di avvicinarlo prima d’allora. La delegazione comunista voleva porre i socialisti unitari, ch’egli rappresentava, davanti all’alternativa: accettare le sue proposte o essere accusati di fare il giuoco del fascismo. Matteotti non si lasciò punto impressionare e calmo, sicuro di sé, dalle prime battute spezzò l’uno dei denti di quell’argomento forcuto. Ricordo il sorriso con cui accompagnò le sue parole: «Quanto all’intransigenza verso il fascismo, chi mi conosce sa che non ho bisogno a incitamenti». Seppi allora ch’egli aveva reagito con estrema violenza contro l’opportunismo e le illusioni di quei suoi compagni che speravano di creare, al fianco di un fascismo «normalizzato», un’opposizione «costruttiva». Matteotti passò poi alla controffensiva. Non pretendo di riprodurre, a tanti anni di distanza, sillaba per sillaba le sue parole, ma il pensiero ch’esse esprimevano è rimasto ben presente al mio spirito e lo fissai per iscritto una ventina d’anni fa: «Lottare a fondo contro il fascismo? D’accordo. Ma in nome di che? Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi in nome della dittatura. C’è tra noi un dissidio di principio, insuperabile. Appunto perché vogliamo lottare contro il fascismo, non possiamo confondere la nostra posizione colla vostra. La vostra fa il giuoco del fascismo. Siete disposti a dichiarare che rinunciate alla dittatura, che siete contro tutte le dittature? Se sì, possiamo senz’altro far la lista comune; se no, ciascuno deve andare per la propria strada». Così Matteotti trasferiva la discussione dal terreno della polemica a quello dei principi, sventando ogni manovra colla sola e decisiva «abilità» che consiste nell’aver delle idee chiare, nel sentirle profondamente e nel difenderle con fermezza di fronte a tutti e in ogni occasione. Al momento in cui Matteotti fu assassinato si apriva a Mosca il V Congresso dell’IC, a cui ero delegato. Alla fine del congresso fu redatto un manifesto ai lavoratori italiani. Nel primo testo, là dove si parlava delle vittime del fascismo, non c’era una parola su Matteotti. Protestai contro questa voluta omissione, e poiché il manifesto era stato scritto in alto loco, pregai Humbert-Droz di recarsi presso Zinov’ev e di ottenere che fosse modificato. Zinov’ev rispose ad Humbert-Droz in modo sguaiato, ma finì col piegarsi alla richiesta. Mentre eravamo a Mosca, ci giunse la notizia del ricevimento offerto, in piena crisi Matteotti, dall’ambasciata sovietica in Roma ai dignitari fascisti. I delegati italiani al congresso formarono una commissione che si recò a protestare presso il capo del governo, Rykov, il quale, dopo averci ascoltati pazientemente, ci dichiarò che la cosa riguardava il commissariato degli Esteri e ci mandò da Cicerin. Partecipai ai due colloqui, e vi presi la parola. Non ci può essere alcun dubbio sul fatto che l’ambasciatore sovietico aveva agito in pieno accordo con Mosca; Cicerin non volle né deplorare l’accaduto, sia pure in camera caritatis, né assumere l’impegno di non ricominciare. Un altro episodio mostra la cura posta dai dirigenti russi a conservare buoni rapporti coll’Italia mussoliniana. Verso la fine del 1923 Nicola Bombacci aveva pronunziato alla Camera un discorso sul trattato commerciale italorusso, esaltandolo e accompagnandolo con considerazioni politiche sui buoni rapporti possibili tra i regimi dei due paesi e lasciando credere a una attenuazione dell’ostilità dei comunisti italiani al governo fascista in cambio di una politica favorevole alla Russia. Immediatamente l’Esecutivo del partito pubblicò una deplorazione del fattaccio, invitando Bombacci a rassegnare le dimissioni da deputato. Mi toccò l’incarico di illustrare al gruppo parlamentare comunista le ragioni del provvedimento. Bombacci si difese come poté, e finì coll’osservare ch’egli aveva sottoposto lo schema del suo discorso all’ambasciatore sovietico, il quale l’aveva incoraggiato a pronunciarlo e a render così un servizio alla Russia. Il segretariato del partito mantenne la misura presa contro Bombacci, ma nel marzo 1924, il presidente dell’IC l’annullò. Trent’anni dopo Togliatti e Nenni prometteranno al governo della repubblica la «distensione», a patto ch’esso modifichi la sua politica estera secondo la strategia dell’URSS. Davanti al «caso Matteotti» e al movimento d’opposizione che esso aveva scatenato in Italia, il Centro del partito ebbe una politica oscillante e senza presa sul paese, né nel senso d’una coalizione democratica, né in quello d’una lotta armata contro il regime. Ruggero Grieco, che si era staccato da Bordiga, scriveva nel dicembre 1924 nella «Correspondance Internationale»: «Il fascismo se ne va. La borghesia italiana gli cerca inutilmente un successore. La consegna degli operai e dei contadini ne risulta quindi ancora più precisa: Abbasso, tanto il fascismo di Mussolini, quando il fascismo mascherato del “ democratico “ Amendola e del “ socialista “ Turati». Sono le stesse parole di Togliatti nell’estate del 1922! «Plus ça change, plus c’est la même chose». (…)
Angelo Tasca
Condividi