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Panzieri, il socialista di sinistra più autonomista di tutti

Pubblicato: 14-02-2023

Il 14 febbraio di 102 anni fa nasceva a Roma Raniero Panzieri. Fu agitatore politico, organizzatore culturale, editor di Einaudi e La Nuova Italia, traduttore (con la moglie) dei due volumi del libro II del Capitale, dirigente del Partito Socialista appartenente alla straordinaria covata di Rodolfo Morandi. Fu, soprattutto, uno dei più lucidi intellettuali marxisti del dopoguerra. La sua ricchissima elaborazione, concentrata nei pochi anni che gli furono dati da vivere  spaziò dal tema della libertà della cultura, che nell'impostazione classica della sinistra novecentesca (soprattutto comunista) aveva una funzione ancillare rispetto alla politica, a quello - su cui si concentrarono maggiormente i suoi studi - della necessità della costruzione dal basso di una democrazia socialista che avesse il suo fulcro nei luoghi di lavoro, la fabbrica soprattutto, e la sua cinetica essenziale nella creazione di nuove forme di gestione delle strutture produttive. Era 20 anni avanti rispetto alla sinistra tradizionale, Psi e Pci. Ma la sua eredità politico-teorica, condensata nei saggi e nelle analisi prodotti tra l’inizio dei Cinquanta e i primi Sessanta, nei 18 mesi di condirezione di Mondo Operaio e nella breve e bruciante stagione dei “Quaderni Rossi”, esercitò una fortissima seduzione sulle generazioni che si affacciarono all'impegno politico e (soprattutto) alle lotte sociali dal '68 in poi, ed è ancora carne viva oggi.

Ha scritto Mario Tronti in un volume pubblicato due anni fa in occasione del centenario della nascita: “Panzieri era un socialista. Un socialista di sinistra. Questo però non lo definisce ancora bene. La sinistra socialista, quella del Psi, non lo ha visto mai come un suo esponente organico. Storicamente, era un socialista rivoluzionario, di quelli che nel processo della rivoluzione in Russia si distinguevano dai bolscevichi, ritrovandosi spesso, anche se confusamente, alla loro sinistra. Era più luxemburghiano che leniniano. Privilegiava l’iniziativa delle masse più che la direzione di partito. Tutto il potere ai soviet non lo Stato operaio. I suoi eroi erano i marinai di Kronstadt più di quelli della corazzata Potëmkin. Passando in occidente, si avvicinava a un orizzonte anarco-sindacalista: ma perché amava gli irregolari delle lotte. Uno dei primi libri che ci mise in mano fu Diario di un operaio di Daniel Mothé. Non ho mai capito se avesse qualcosa di più che una curiosità trotzkista. Allora queste erano ancora accuse infamanti, oggi le possiamo riguardare come simpatiche differenze”.

Nel Psi Panzieri ci rimase fino alla scomparsa prematura, il 6 ottobre 1964, sia pure in posizione molto defilata: era dal congresso del 1957 che non faceva più parte della direzione, e dopo quello di Milano del '61 era uscito anche dal Comitato Centrale. Se avesse voluto lasciare il partito, avrebbe potuto farlo 10 mesi prima di morire, quando ci fu la scissione del Psiup, cui pure aderì Lucio Libertini, con il quale aveva scritto le Sette tesi sul controllo operaio pubblicate su Mondo Operaio, e al quale era legato da un sodalizio che era culturale e politico al tempo stesso. Raniero, però, non scelse quello che, con felice sintesi, Gaetano Arfè avrebbe definito il "partito provvisorio" (anche un libro di Aldo Agosti sul Psiup si intitola così).

In realtà tutte le scissioni, da Livorno a Palazzo Barberini, a quella del Psiup hanno rappresentato delle gravissime battute d’arresto, perché hanno indebolito il partito dei socialisti italiani in momenti cruciali della sua vicenda storica: quella dei carristi, contribuì a condannare il Psi di Nenni, impegnato in un grande sforzo riformatore nell'ambito del primo centro-sinistra "organico", alla subalternità rispetto alla Dc di Moro da un lato, e al Pci dall'altro. Probabilmente (ma sul punto, purtroppo, si possono fare solo ipotesi), le ragioni che indussero Panzieri a non aderire al Psiup non furono queste, ma la sua lontananza, culturale, ideologica e politica insieme, dai veri promotori della scissione: gli stalinisti Vecchietti e Valori, che avevano cominciato a prepararla già dopo il tragico 1956. Non da Lelio Basso, ovviamente (che si sarebbe poi amaramente pentito), e nemmeno da Vittorio Foa, che da quel momento avrebbe vagato senza meta per le varie sigle in cui si sarebbe scomposta la sinistra radicale, senza mai più trovare una "casa" definitiva e sicura. Alle numerose scissioni è legato un vizio strutturale dal quale i socialisti italiani non sono mai riusciti a liberarsi. Il fatto, cioè, di aver delegato ai comunisti, partiti come minoranza nel '21 e diventati via via sempre più forti elettoralmente e soprattutto organizzativamente, la definizione di cosa dovessero essere. Questo, in fondo, è il problema cruciale dell'autonomismo. Due, o forse tre, generazioni di dirigenti ci si sono arrovellati: valga per tutti l'ultratrentennale tormento di Lelio Basso. Questo per rimanere nel campo delle categorie politologiche, ma forse è più interessante, investigare la dimensione "psicologica" in cui si sono mossi i socialisti per quasi tutto il Novecento.

Panzieri, intellettuale raffinatissimo, il problema non ce l'aveva. Non tutto ciò a cui lo conduceva la sua elaborazione si trovava nel partito. Ma quello che c’era se lo faceva bastare, perché solo nel Psi poteva riconoscersi, da libertario antistalinista e consiliarista. Anticipando la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto allo sviluppo effettivo delle forze produttive, lo stalinismo aveva attuato la separazione di fatto del controllo dei mezzi di produzione dai produttori. Panzieri da un lato guardava al Gramsci dell'Ordine Nuovo, dall'altro dimostrava di essere "figlio" di Morandi quando teorizzava il ritorno del movimento operaio alla sua autonomia con la creazione di nuove forme di democrazia diretta sul piano delle strutture produttive.

“Nella fase crepuscolare del togliattismo – ha scritto Marco Revelli- nel punto di frattura della lunga egemonia «comunista» che dal 1921 in poi aveva solidificato nella propria «forma-partito» l’esperienza di emancipazione e di lotta delle classi subalterne italiane, l’elaborazione di Panzieri segna l’emergere della possibilità, embrionale, di un «altro movimento operaio». Sanziona, nella propria felice capacità di saldare strategia e tattica, teoria e pratica, la legittimità del conflitto sociale – della «lotta di classe» – al di là dell’estenuazione delle sue «avanguardie» tradizionali e l’impasse del suo «partito-guida». È anche grazie a lui –al Panzieri «militante politico di base» e al Panzieri teorico alto dell’autonomia sociale e politica dell’identità operaia -, se la spontanea («strutturale», potremmo dire) volontà di lotta della nuova composizione di classe che andava emergendo nel pieno della tumultuosa transizione italiana al neocapitalismo poté trovare parole adeguate per «fare racconto» e una «teoria» per ottenere dignità storica e politica”. Parole che suonano come l’epitaffio più lucido e stringente su una esperienza irripetibile, che appartiene per intero alla storia e al patrimonio di idee e di lotte del socialismo italiano. Oltre ogni più ragionevole dubbio.  

Massimiliano Amato

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