De Martino, la maturità del socialismo *
Pubblicato: 18-11-2022
*Da “InfinitiMondi”, n.3/17, Novembre-Dicembre 2017
di Massimiliano Amato
Pur di non semplice rappresentazione per la vastità di temi e riflessioni che suggerisce, la biografia politica e culturale di Francesco De Martino è riconducibile a due fondamentali assi concettuali: la necessità di ancorare ad uno spazio culturale e ideale definito una realtà essenzialmente di movimento quale è stata l’esperienza del socialismo italiano per tutta la seconda parte del Novecento, e una straordinaria tensione unitaria, pazientemente ma inflessibilmente alimentata in settant’anni di impegno civile e democratico. Tra questi due poli si dipana la complessità di una figura apparsa sempre “per un verso legata a un passato irripetibile, per un altro proiettata in un futuro remoto e imprevedibile”, come mirabilmente sintetizzava Gaetano Arfé in uno dei suoi ultimi scritti dedicati al Professore, del quale era stato amico e stretto collaboratore, che pubblichiamo come introduzione a questo speciale.
La prima caratteristica introdusse nella dialettica interna al Psi buona parte di quei contenuti originali che avrebbero fatto del socialismo italiano un caso esemplare sullo scenario della sinistra europea del secondo dopoguerra, stretta nella dicotomia apparentemente irrisolvibile tra il modello sovietico e la provvisoria (e non sempre sicura) uscita di sicurezza dalla contraddizione tra giustizia sociale e libertà rappresentata dalle socialdemocrazie. In De Martino la sensibilità e il rigore dell’intellettuale fecero sempre premio sui tatticismi e sulle convenienze dettate dalle contingenze. Quasi che i ruoli di direzione politica e di rappresentanza istituzionale (segretario generale del Psi, vicepresidente del consiglio) che il partito man mano gli assegnò costituissero il naturale completamento di un percorso. Un itinerario di vita e militanza politica in cui la grande dimensione culturale (e accademica) dello scienziato del diritto si fondeva, generando armoniose sintesi, con l’attivismo quotidiano in favore della democrazia, del progresso, della pace.
La scelta, mai revocata, del campo marxista è antecedente alla confluenza nel Psi dopo lo scioglimento del Partito d’Azione. Di quel passaggio drammatico della storia politica nazionale, dello scontro ideologico tra liberali di sinistra (che Togliatti vedeva come “naturali alleati del proletariato”) e socialisti, che avrebbe prematuramente portato all’epilogo un’esaltante esperienza di lotta resistenziale, De Martino fu fin dall’inizio uno dei protagonisti. Incaricato dal Centro meridionale del Pd’A di tenere la relazione politica al congresso di Cosenza, già nell’agosto ’44 egli sosteneva senza mezzi termini che il programma politico del partito non potesse non essere quello di una grande democrazia socialista. Nel corso di tutta la sua militanza nel Partito d’Azione De Martino non avrebbe mai derogato da questa linea, che partendo sul piano teorico dalla necessità di una sintesi tra i valori di libertà e giustizia sociale, riconosceva sì la legittimità della coesistenza di due settori dell’economia, pubblico e privato, ma sottoponeva quest’ultimo al “controllo democratico”. Nel contempo, postulava la collettivizzazione, in maniera antiburocratica e anticentralistica, della grande organizzazione industriale, bancaria, agraria e commerciale.
Una linea, quella uscita dal congresso meridionale di Cosenza, sulla quale nel biennio successivo sarebbero confluiti, nelle varie fasi del dibattito interno, figure illustri dell’azionismo: da Rossi Doria a Lussu (autore del documento finale dell’assise), a Foa, Comandini, Codignola, Spinelli, Levi, Ginzburg, Agosti, Lombardi. L’approdo di De Martino al partito che dopo la fusione con il Mup di Lelio Basso aveva assunto la denominazione di Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) aveva, dunque, tutte le caratteristiche di un naturale “ricongiungimento” alla tradizione partita nel 1892 nella Sala Sivori di Genova.
Sarebbe stato quest’itinerario a determinare uno specifico “demartiniano” – riassumibile nelle due caratteristiche di cui si parlava all’inizio – nella centenaria storia del socialismo italiano. In primo luogo, dunque, l’esigenza sempre avvertita della cucitura di un abito su misura per un partito in cui, a partire dalla ricostituzione del 1943, si erano incontrate diverse tendenze e linee di pensiero. In esso convivevano il giacobinismo istintivo e libertario di Nenni e il leninismo ortodosso di Morandi, il riformismo di stampo illuministico di Lombardi e (almeno fino alla scissione di Palazzo Barberini) il bauerismo di Saragat, il luxemburghismo pensoso di Basso e il trotzkismo delle nuove leve che addirittura, nel ’47, in funzione antisovietica e antistalinista, avevano contribuito alla fondazione del Psli, poi Psdi.
Escluso Nenni, che era istinto politico puro, e che tuttavia aveva costruito la propria indiscussa leadership non solo sul collante della politique d’abord ma anche su analisi e visioni di respiro storico e su una straordinaria capacità di interpretare le “fasi” e di dare ad esse un’impronta originale e una direzione, ogni area culturale proponeva una propria, personale, revisione dottrinaria del turatismo degli inizi. Fu senz’altro la profondità dell’uomo di cultura chiamato a misurarsi con l’impegno politico, cui generosamente devolveva i frutti di anni e anni di studi rigorosi, a far comprendere a De Martino che questa tendenza minacciava di privare il socialismo italiano del secondo dopoguerra di un solido baricentro ideologico. Rischiando di comprometterne il rapporto con le masse popolari, che Nenni riusciva sì a suggestionare fortemente con la sua passione e la straordinaria forza oratoria, ma che il Pci irreggimentava più facilmente con parole d’ordine essenziali, secche e perentorie. Quello di De Martino era il socialismo scientifico di Marx. Senza ulteriori qualificazioni. Il medesimo socialismo di Filippo Turati, che tutti i revisionismi, dai più remoti a quelli più recenti, cercano di far passare per moderato, e che invece teorizzava la lotta di classe e la costruzione di un nuovo modello di Stato e di società, affrancato dalle logiche capitalistiche dello sfruttamento e della ricerca esclusiva del profitto.
Per tutto il (lungo) periodo in cui, anche su precisa influenza “esterna” dei comunisti, il Psi fluttua nel limbo di una pretesa ambiguità della sua funzione storica – se cioè non sia il caso di rassegnarsi ad un ruolo “ausiliario” rispetto al Pci, per intercettare i cosiddetti “ceti medi” – De Martino è tra i dirigenti che con maggiore determinazione ne ribadiscono e sottolineano la natura di partito di classe. Allo stesso modo, la sua condotta unitaria terrà aperto un cuneo, una sorta di permanente corridoio di decantazione, tra le pulsioni fusioniste che agitano alcuni settori del partito prima, durante e dopo l’esperienza frontista, e l’esigenza – dettata dai noti fattori di carattere internazionale – di una sempre più marcata separatezza tra i due partiti maggiori della sinistra. In questo senso, nel delineare l’esemplarità dell’esperienza del socialismo italiano nel contesto europeo e della stessa Internazionale (dalla quale il Psi resterà fuori per una decina d’anni), non si può non prendere atto che la figura di De Martino è stata fondamentale, giacché la sua strenua difesa dell’unità di classe articolata su due partiti anziché uno solo non ha assolutamente compresso, ma anzi allargato le prospettive dell’autonomismo, traendolo dalla dimensione dell’orgogliosa, ma sterile, rivendicazione identitaria. Per conservare al Psi una forte capacità di competizione con i comunisti sul terreno, avanzato, delle riforme necessarie perché si realizzasse il cambiamento nella politica, nelle istituzioni, nell’economia e nella società italiana della seconda metà del Novecento.
Più volte, e da moltissimi osservatori, storici, compagni di partito e di lotte, è stato (giustamente) osservato come questa tensione unitaria sia collegata all’impegno meridionalista che De Martino matura nell’immediato Dopoguerra fianco a fianco con comunisti come Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano e, soprattutto, Giorgio Amendola, col quale stabilisce una lunga e fruttuosa consuetudine di rapporti non solo politici, ma amicali nel senso più ampio del termine. Anche nel Comitato per la Rinascita del Mezzogiorno, tuttavia, le posizioni di De Martino e degli altri socialisti non rappresenteranno mai la statica riproposizione di quelle avanzate dai dirigenti del partito fratello. Se il Pci (ma anche la Dc) insistono quasi esclusivamente sulla riforma agraria, i socialisti, De Martino in testa, ampliano gli orizzonti, ponendo l’accento sulla necessità di un processo di industrializzazione diffuso che possa consentire al Mezzogiorno degli anni Cinquanta un salto decisivo nella modernità.
Tutta la biografia politica di Francesco De Martino si snoda intorno a questo rapporto di collaborazione/sfida con i comunisti, pur sempre condizionato, in un senso come nell’altro, dal problema della “doppia fedeltà” di quel partito. Fino al tragico ’56 la sua scelta di campo è netta, e si articola attraverso una critica serrata alla “neutralità” in politica internazionale espressa dal direttore dell’Avanti! Riccardo Lombardi, duramente contestata da Morandi e (erroneamente) interpretata in chiave filosovietica dallo stesso Nenni. Scandirà dalla tribuna del XXVIII congresso socialista (Firenze, maggio ’49): “La dura legge dei fatti ha impedito il formarsi di questa posizione politica. Vi sono due forze nel mondo, vi sono due forze in Italia. Noi abbiamo il dovere di scegliere chiaramente in modo decisivo. Scegliamo quella parte che ha creato il socialismo nella realtà, che ha fatto la rivoluzione socialista”. Negli anni successivi, lo schema bipolare in cui il mondo è imprigionato gli serve per delimitare il campo dell’azione socialista in Italia, che non è quello della socialdemocrazia, che su Mondo Operaio descriverà come “l’accettazione del sistema che è stato creato dalla borghesia nella fase di sviluppo del capitalismo, non per ora, nella fase attuale della storia, ma per sempre, quasi una verità assoluta ed eterna”. I fatti d’Ungheria e il rapporto Krusciov si incaricheranno di disvelare una realtà durissima. Rifletterà molti anni dopo il Professore, nel pamphlet “Il pessimismo della Storia e l’ottimismo della ragione”, dato alle stampe in corrispondenza di un altro snodo cruciale della storia del Secolo Breve, il 1989, anno della caduta del Muro e dei carrarmati a Tien-An-Men: “Le difficoltà della sinistra in Italia dipendono anche dai suoi errori e dalle sue lentezze che s’imponevano almeno dal XX congresso del Pcus in poi. Abbiamo continuato a discutere in quegli anni della dittatura del proletariato anche dopo che era evidente che tale prospettiva rivoluzionaria non esisteva in Occidente. Mentre dal lato teorico eravamo riluttanti ad ammettere che questa era una parte caduca del marxismo e continuavamo a criticare la socialdemocrazia in Europa, nella pratica politica non facevamo niente di diverso. Così sono stati perduti anni preziosi nell’elaborazione di un socialismo democratico e delle riforme sociali possibili e attuabili”.
In realtà, negli anni che precedono e preparano il primo centro-sinistra organico, De Martino ha cura che mai s’interrompa la linea di ricerca di un socialismo altro e “terzo” rispetto sia all’esperienza storicamente determinatasi in Urss e nell’Europa Orientale, che a quella riferibile a uno schieramento molto vasto, che va dalla Sfio francese all’Spd, al Labour, fino alle socialdemocrazie nordiche. Scriverà su Mondo Operaio a proposito delle conclusioni del congresso di Napoli del 1959: “Occorre precisare che il prevalere nella fase presente dell’autonomia non ha scopi antiunitari, non solo perché il Congresso respinge l’anticomunismo (…), ma soprattutto perché la politica del Psi viene concepita come una politica atta a esprimere le esigenze di tutta la classe lavoratrice italiana e non solo di una parte o di una frazione di essa. Ché anzi almeno nell’ipotesi dei suoi sostenitori la linea dell’autonomia è rivolta ad un’interpretazione molto più unitaria delle esigenze di classe, in quanto si sforza di ricercare meglio di ogni altra la via nazionale, specifica del movimento operaio italiano e quindi di raccogliere su di essa l’intera classe lavoratrice, compresa la sua larga ala cattolica”. Dentro questa impostazione egli si muoverà per tutta la delicatissima fase politica che condurrà, a dicembre del 1963, i socialisti nella “stanza dei bottoni”. Rappresentando l’ideale baricentro di un partito nel quale si confrontavano e si scontravano diverse tendenze. Quella nenniana, riassumibile nella sottolineatura della necessità storica di portare le masse lavoratrici al governo del Paese, esigenza declinata prevalentemente in chiave di difesa dello Stato democratico dai pericoli di derive autoritarie e neofasciste. Quella lombardian-giolittiana, che affidava al riformismo dall’alto della programmazione economica (molto diverso dal riformismo socialdemocratico) il progetto di trasformazione dello Stato e della società capitaliste in senso democratico e socialista. Quella dei Panzieri e dei Foa, i quali già dalla metà degli anni Cinquanta portavano avanti la loro fecondissima elaborazione teorica sul controllo operaio. Infine, quella dei cosiddetti “carristi” che avrebbero, sotto la sua segreteria, promosso la scissione del Psiup, per lui particolarmente dolorosa anche dal punto di vista personale, poiché interrompeva traumaticamente vecchi rapporti e antiche solidarietà culturali e ideologiche, prima fra tutte quella con Lelio Basso.
Da marxista “classico”, De Martino non rinunciava a fare i conti con la Storia, scegliendo senza indugio di sostenere lo sforzo di Nenni teso a riaprire una prospettiva di governo per la sinistra, dal ’47 all’opposizione per il diktat degli Usa a De Gasperi. Nel primo centro-sinistra organico, egli vedeva una ripresa della lotta per la Costituzione e la Repubblica: “Nella Resistenza e nell’Assemblea Costituente, quando si trattò di collaborare con forze cattoliche e borghesi, fu riconosciuto che ciò corrispondeva alla necessità di dar vita ad uno stato democratico avanzato e non implicava per nulla l’abbandono del socialismo. Togliatti, in un suo discorso tenuto a Firenze nel 1944, sostenne la necessità di tale accordo (…)”, affermava nella prima riunione del Comitato centrale del partito subito dopo il varo del governo Moro-Nenni (dicembre
1963). “Il ciclo storico apertosi con la Resistenza e la Costituzione – continuava – non si è ancora concluso. Quindici anni di centrismo e di contrapposizione frontale hanno impedito che si procedesse all’attuazione della Costituzione. Non si comprende perché quella che nel 1945-’46 venne considerata una linea d’azione giusta e necessaria e che permise allora al movimento operaio di conseguire importanti successi, debba ora essere considerata un grave errore o addirittura l’abbandono dei principi del socialismo (…)”.
Nelle conclusioni, c’era tutta la sua impostazione di materialista dialettico: “Occorre superare vecchie concezioni schematiche del passato e trarre il nostro più vero alimento solo dalla realtà dei rapporti economici e sociali, dalle rapide trasformazioni materiali in corso, dalle mutate condizioni del Paese. Riteniamo anche che ormai non abbia più senso una contrapposizione del riformismo e del massimalismo, così bisogna persuadersi che la contrapposizione tra socialdemocrazia e comunismo, nei termini in cui essa diede luogo ad aspre polemiche, è oggi molto anacronistica. Certo, passerà ancora molto tempo, un ciclo storico, forse, ma né il movimento comunista potrà resistere alle forze prorompenti dal suo seno, che anelano al rinnovamento democratico ed alla piena libertà della forza creativa delle masse, né quello socialdemocratico potrà appagarsi di assolvere la parte di onesta amministrazione della società del benessere”.
Parole dal grande valore profetico, che anticipavano la doppia crisi dei decenni successivi: quella del comunismo e quella del modello socialdemocratico, tuttora in corso. Lui, il Professore, sarebbe passato attraverso la stagione delle riforme, prima da segretario e poi da vicepresidente del Consiglio. Le conquiste del centro sinistra della seconda metà degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta – giusta causa, Statuto dei lavoratori, Divorzio, legge sul referendum, Riforma sanitaria, Pensioni – il Psi riuscì a strapparle alla Dc sotto la sua guida, e anche grazie al suo impulso nelle funzioni di governo. Per primo, nel suo partito, individuò gli affanni, il fiato corto di quella stagione. E, unico tra tutti i dirigenti socialisti, avrebbe colto con prontezza e invidiabile lucidità la straordinaria evoluzione in senso europeo e occidentale del Pci prodottasi con la segreteria di Enrico Berlinguer. La cui ricerca di una “Terza via” somigliava in maniera impressionante all’originalissima impostazione che egli aveva cercato, per quasi mezzo secolo, di imprimere al socialismo italiano. Non fu ascoltato. Anzi. Venne brutalmente estromesso dalla guida del partito, anche sull’onda di una goffa revisione culturale e ideologica (il risibile e affrettato sfratto dal Pantheon socialista di Carlo Marx per far posto a Proudhon, passato alla storia come “Il Nuovo Vangelo Socialista”) cui presero parte anche intellettuali d’area che si erano formati negli anni in cui aveva diretto Mondo Operaio.
Da grande galantuomo napoletano di altra epoca e statura morale, sarebbe rimasto legato al partito a cui aveva dedicato tutte le sue energie, osservandone con lucidità ma mai con distacco il declino e la grave crisi sfociata nello scioglimento, per via giudiziaria, del 1994, dopo 102 anni di storia. La sua elaborazione teorica, la ricerca di nuove strade per la sinistra travolta dagli sconvolgimenti epocali indotti dalla globalizzazione disumanizzante e creatrice di nuovi e profondi squilibri e diseguaglianze, non si arrestò mai: “Rimase – scrive Arfé – l’uomo dell’unità, senza illusioni, ma senza disperazioni, perché il suo problema era nutrito non di miti, ma di dottrina e di storia”. Recuperare (e rilanciare) oggi la straordinaria lezione che ci ha lasciato è operazione che non ha a che fare con la memoria, ma con quel futuro “remoto e imprevedibile” a cui […] la sua figura continua (e continuerà probabilmente ancora a lungo) ad appartenere.
*Da “InfinitiMondi”, n.3/17, Novembre-Dicembre 2017
Massimiliano Amato
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