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Il compagno Tempesta primo antesignano della Resistenza

Pubblicato: 13-06-2024

Intervento pronunciato all’Università Napoli Federico II il giorno 10 giugno 2024, nell’ambito della commemorazione del centenario del rapimento e dell’assassinio di Giacomo Matteotti 

“L'uomo di parte, l'assertore nobile ed alto di un'idea nobilissima, quegli che fu, per noi socialisti, tutto in una volta, il filosofo, il finanziere, l'oratore, l'organizzatore, il commesso viaggiatore, l'animatore sovra tutto, il pensiero insomma e l'azione congiunti -quest'uomo, questa figura così staccata e viva su lo sfondo verde e bigio di questo singolare paesaggio politico, non sparisce, no, non scolora, ma si riaffaccia oggi in troppo più ampia cornice. Quello che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa vostra, l'uomo di tutti, l'uomo della storia. E, ingrandito così, quasi è tolto a noi, come alla famiglia dolorante, perché è divenuto un simbolo. Il simbolo di un oltraggio che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un popolo”. Con queste commosse e profetiche parole, pronunciate il 27 giugno del 1924 davanti alla platea dei deputati dell’Aventino, Filippo Turati consegnava Giacomo Matteotti alla storia d’Italia, attribuendo al suo sacrificio per la democrazia e la libertà le caratteristiche di una enorme tragedia nazionale, tra le più grandi dell’ancor breve vita dello stato unitario. Gigantesca l’onda di sdegno e di raccapriccio che queste espressioni contribuivano a formare e a riversare su un regime che, macchiandosi del sangue di Matteotti, aveva arrecato un oltraggio inemendabile a quella patria di cui esso stesso, negli anni e nei mesi precedenti, s’era erto a difensore contro il cosiddetto “pericolo rosso”. In realtà con quel delitto, che eliminava dalla scena politica uno dei più lucidi e strenui difensori delle ragioni dei ceti subalterni - dal proletariato industriale delle fabbriche a quello rurale delle campagne d’Italia - esso mostrava la sua spietata caratteristica di regime di classe. È da questo primo elemento che bisogna partire per spiegare Matteotti oggi. Dalla straordinaria, quasi sovrumana capacità, cioè, che la sua figura e la sua opera, e ancor più il suo martirio, hanno avuto e hanno ancora tuttora di produrre una quasi perfetta identificazione tra le istanze e le aspirazioni di una parte, sia pure considerevole e numericamente maggioritaria, della società del suo tempo e di tutte le epoche successive, e l’interesse nazionale. E nel caso specifico è fuor di dubbio che nel tragico quadriennio 1920-1924 l’interesse nazionale coincidesse con la necessità suprema di neutralizzare il violentissimo attacco sferrato contro lo Stato liberale prima dallo squadrismo e poi dal fascismo fattosi Stato.
E di respingerlo, ed è questo il secondo elemento sul quale sarebbe opportuno concentrare l’attenzione oggi, con ogni mezzo. Un’impostazione, questa, che ne faceva, già nel 1924, l’ideale anticipatore del gigantesco moto di ribellione armata che 20 anni dopo avrebbe restituito all’Italia le libertà democratiche. Nel denunciare le violenze squadriste in un intervento alla Camera il 31 gennaio del 1921, cioè 20 mesi prima che il fascismo arrivasse al potere, egli si era rivolto con queste parole all’imbelle e agonizzante classe dirigente liberale: “Non è più lotta politica, è barbarie; è medioevo. Dobbiamo noi combattere la lotta politica in questa maniera?  Siamo anche noi autorizzati a metterci su questo terreno? Ma vi levaste almeno di mezzo, voi del governo, e ci lasciaste combattere con dignità e parità di condizioni. E noi sapremmo mettere a posto i briganti. Il vostro intervento è intervento a favore dei briganti”. Pronunciato in quel drammatico frangente della storia nazionale dominato dall’epocale crisi del socialismo sfociata nella scissione di Livorno, quel discorso letto oggi contribuisce, con altri interventi e scritti, a fare strame di qualche luogo comune di troppo che ha accompagnato a lungo Matteotti. Il deputato socialista aveva maturato una personale mistica del ricorso alla violenza contro-reazionaria che per molti aspetti è anticipatrice di quella che avrebbe animato le forze democratiche nel biennio ’43-‘45. Nell’ultima lettera scritta allo stesso Turati poche settimane prima delle elezioni dell’aprile 1924, parlando della forma che avrebbe dovuto assumere l’opposizione al nascente regime scriveva perentorio: “Tutti i cittadini devono essere rivendicati; lo stesso Codice riconosce la legittima difesa”. Arrivando a invocare una “resistenza senza limite, con disciplina ferma”. Un atteggiamento mentale che peraltro aveva mostrato già nel corso dell’intransigente battaglia pacifista condotta tra il 1914 e il 1915 nel suo partito contro il “né aderire, né sabotare” turatiano. Aveva scritto sulla Critica Sociale: “Un milione di proletari organizzati nell'Italia settentrionale sono sufficienti a far riflettere qualsiasi governo sulla opportunità di aprire una guerra; poiché non soltanto noi dovremmo preoccuparci d'“aggiungere anche la guerra civile”; e non sappiamo fino a dove si possa temere uno spargimento di sangue, se altrimenti la guerra moderna falcerebbe, nel nostro stesso campo, centinaia di migliaia di vite”. E otto anni dopo, in un articolo scritto il 23 gennaio del 1923 per “La Giustizia”, il quotidiano del Psu del quale era diventato segretario pochi mesi prima, in seguito alla separazione consensuale tra massimalisti e gradualisti, aveva opposto risolutamente alla violenza come metodo di gestione del potere, l’autodifesa proletaria “contro la reazione, la controrivoluzione, il fascismo”.
Negli ultimi decenni la storiografia si è divisa, e continua a farlo, sul movente del suo assassinio. Discussione giusta e legittima, assorbita però dagli elementi fin qui rappresentati. Matteotti era radicalmente alternativo al fascismo, al quale aveva dichiarato una guerra senza quartiere che, partiva dal piano della battaglia politico-parlamentare ma non escludeva alcun altro mezzo. Si è sostenuto, con qualche buona ragione, che in questi cento anni la sua figura sia stata completamente fagocitata dalle modalità pur cruente della sua eliminazione. Il martirologio avrebbe fatto slittare in secondo piano, insomma, gli elementi di forte originalità del suo antifascismo. A partire dalla consapevolezza che la guerra al nascente regime non poteva non passare attraverso un’opera capillare di persuasione da condurre nell’ambito delle democrazie europee, Francia e Inghilterra su tutte, a proposito dell’estrema pericolosità del regime mussoliniano. Andarono in questa direzione gli sforzi che egli fece per portare clandestinamente, e far tradurre, fuor d’Italia il suo libro bianco “Dopo un anno di dominazione fascista”. Con la sua denuncia incessante, unita a una profonda riflessione tecnica e politica affidata sia all’attività parlamentare che all’intensa pratica pubblicistica sugli organi di stampa di partito, Matteotti spalancava quotidianamente ai suoi compagni e non solo a essi, nuovi orizzonti di senso. Sforzandosi di generare rinnovati punti cardinali in grado di orientale le forze democratiche, immerse nel buio fitto di una stagione popolata di mostri generati dal sonno della ragione. Anche il sotto testo dei suoi interventi e articoli giornalistici tecnici, in materia di finanza pubblica e equità del sistema tributario, era la difesa intransigente della democrazia, che vedeva con occhi sempre più angosciati illanguidire progressivamente fino a morire. Aveva visto il deragliamento in anticipo e si era industriato, parafrasando la teoria di Benjamin sulla rivoluzione, a costruire il freno d’emergenza. Non gli diedero il tempo di azionarlo.

Ma oggi si può tranquillamente affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che l’apostolato del “compagno Tempesta”, a prescindere dall’esito tragico della vicenda personale, fu premessa essenziale per una delle più grandi vittorie della democrazia nella storia d’Occidente, proprio come aveva profetizzato Turati nei giorni angosciosi successivi al rapimento, prima del macabro ritrovamento del cadavere. Proponendosi come paradigma valido per ogni epoca. L’urlo finale del martire contro il dispotismo, contenuto nel discorso del 30 maggio 1924 alla Camera, è destinato a rimbombare per sempre, come un'eco ossessiva, nelle coscienze dei democratici di tutto il mondo e di ogni generazione. Continuando a essere in eterno luce di vita, di speranza e di verità nelle notti più buie della Storia.

Massimiliano Amato

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