Lottare contro il lavoro precario è un dovere civile
Pubblicato: 27-05-2024
Una riflessione di Giovanni Gazzo, dirigente della Uil
La Costituzione italiana non prevede il lavoro precario, anzi lo esclude.
Eppure milioni di lavoratrici e lavoratori, uomini e donne giovani, soprattutto, lo subiscono, “grazie” a leggi e interpretazioni delle stesse che invece di tutelarli, li discriminano sia dal punto di vista normativo che retributivo.
Siamo alle prese con un fenomeno che inquina e condiziona l’intero sistema produttivo, rispetto al quale è irresponsabile chi non lo combatte o addirittura lo nega, non chi lotta per eliminarlo.
Lo conferma anche un recente report della società di analisi americana Gallup, secondo il quale “i lavoratori italiani sono i più infelici d’Europa, sottopagati e mobbizzati”.
Urge affrontare il problema, non assuefarsi.
Quando il neo Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, afferma che adesso “parlare di Jobs Act è una pazzia”, adotta un lessico politico che risveglia passioni e contrapposizioni anche irrazionali, anziché confrontarsi ed eventualmente confutare nel merito le richieste e le posizioni delle organizzazioni sindacali.
Quanto meno di quelle che non abdicano alla loro funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, a cominciare dal diritto costituzionale a una retribuzione in grado di assicurare “un’esistenza libera e dignitosa a sé stessi e alla proprie famiglie”.
Non ci si deve rassegnare, è necessario ricreare equilibrio tra imprese e lavoratori, se serve, come ormai appare evidente, anche attraverso i Referendum.
L’esaltazione decontestualizzata della competitività d’impresa diventata sistema, si è tramutata in illimitata concorrenza al ribasso a danno delle persone che, per vivere, sono costrette ad accettare lavori sottopagati e spesso anche a rischio della propria “salute e sicurezza”.
Il Jobs Act così detto è stato promosso dalle imprese e aspramente contestato sia politicamente che da parte sindacale, attorno alla figura caratterialmente divisiva dell’ex Presidente del consiglio Matteo Renzi, ma è bene precisare che prima e dopo il suo governo c’erano e tuttora permangono fortissimi interessi economici e orientamenti politici che hanno operato e continuano a operare per consolidare il disequilibrio tra imprese e lavoratori.
Che fa male alle persone, all'economia e alla salute democratica del Paese.
Questo è il problema, che il governo Meloni non intende mettere in discussione, anzi opera per consolidarlo.
Che altro rimane da fare se non prenderne atto e agire di conseguenza?
Puntare sui Referendum (ma non solo sui referendum), dipende dalla realistica lettura del quadro politico e delle filiere economiche e “professionali” che hanno contribuito a generarlo. Dalla indisponibilità a realizzare i cambiamenti necessari mediante accordi concertati.
Operare in economia violando palesemente il dettato costituzionale a danno dei lavoratori è molto peggio che mettere le mani nelle loro tasche.
Significa non rispettare la loro libertà e dignità, mettere a rischio la loro salute e sicurezza,
andare storicamente a ritroso. Altro che modernità e innovazione.
Queste si misurano nel sociale e nella promozione di una economia di scopo che non esclude il profitto ma lo abbina al benessere delle persone.
Il lavoro come lo concepisce la Costituzione non ha nulla a che vedere con la diffusa irresponsabilità di imprese e imprenditori che “utilizzano” i lavoratori violandone palesemente la lettera e lo spirito, allo scopo di trarne vantaggio economico.
La chiamano flessibilità, ma in realtà è irresponsabile lasciar fare.
Non ci si deve rassegnare a questo modello d’impresa dove si ordina e subordina ma si respinge la partecipazione e non si condivide la ricchezza prodotta collettivamente.
Moderni e innovativi non sono le imprese e gli imprenditori che generano precariato di convenienza e tutto il malessere che c’è dentro, ma quelli che lo combattono.
È una necessità che va oltre il dovere della solidarietà nei confronti delle persone che direttamente ne subiscono le conseguenze.
Assumersi questa responsabilità è molto più moderno dei luoghi comuni e degli stereotipi ossessivamente ripetuti dalle organizzazioni imprenditoriali, secondo i quali basta enunciare i termini produttività e competitività per giustificare qualsiasi irregolarità all’interno della filiera produttiva.
Non esistono organizzazioni sindacali autolesioniste interessate a che le aziende non siano economicamente robuste e quindi in grado di retribuire equamente i lavoratori, oltre a pagare regolarmente le imposte e ad agire correttamente nei confronti dell’ambiente, dei consumatori e dei fornitori, che spesso sono imprese appaltatrici o in subappalto dove il marcio e le irregolarità abbondano.
Contrastare il precariato è innanzitutto lotta per rendere libere le persone dal bisogno, per la democrazia sostanziale, senza la quale la ricchezza prodotta viene iniquamente distribuita, a doppio svantaggio delle persone costrette a sobbarcarsi la fatica, i rischi e i disagi maggiori.
Come ben sanno le lavoratrici e i lavoratori del Commercio del Turismo e dei Servizi e degli altri settori produttivi.
Questa situazione non dipende da un vincolo economico oggettivo, dal momento che coinvolge sistematicamente le medie e grandi imprese che realizzano ottimi profitti, le quali, come committenti, sono coinvolte nella filiera degli appalti e subappalti dove trionfa il lavoro povero e insicuro, causa non secondaria di gravi infortuni, spesso mortali.
Tutti siamo chiamati a uno slancio di onestà intellettuale soprattutto nei confronti delle donne e dei giovani, particolarmente penalizzati.
Sarà inevitabile schierarsi e argomentare, proporre e prospettare.
I referendum promossi dalla CGIL, ma ormai patrimonio di centinaia di migliaia di cittadini e cittadine, lavoratici e lavoratori di diverso orientamento politico e sindacale che stanno contribuendo alla raccolta delle firme, rappresentano una possibilità concreta di cambiamento e offrono la possibilità di poterlo realizzare.
A mio parere va condiviso a livello di partecipazione senza anacronistiche e provinciali gelosie che confondono lo strumento con lo scopo.
Non è pensabile astenersi dall’interesse dei lavoratori, che è quello di riportare la flessibilità alla sua originaria funzione organizzativa da risolvere in ambito contrattuale, piuttosto che perpetuare lo svuotamento dei diritti dei lavoratori iniziato da molto prima del Jobs act e proseguito dopo.
I Referendum popolari sono divisivi e conflittuali per loro natura, ma autenticamente democratici e coinvolgenti, tanto da determinare svolte storiche che lasciano il segno, come dimostra la storia dell’Italia moderna con la nascita della Repubblica fondata sul lavoro.
Riconquistare sul campo il lavoro stabile, dignitoso, sicuro e tutelato, è nel DNA della nostra Costituzione.
Lo dobbiamo a noi stessi, a coloro che si sono sacrificati per lasciarcela in eredità con il compito di difenderla e trasmetterla essenzialmente integra alle future generazioni.
Giovanni Gazzo
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