Scotellaro, il meridionalismo eretico di un grande irregolare
Pubblicato: 15-12-2023
La sorprendente attualità di un'impostazione "sgradita" alla sinistra tradizionale del suo tempo, soprattutto quella comunista
Iscrivere Scotellaro tra gli eretici e gli irregolari del meridionalismo che rimonta nel dibattito pubblico a metà degli anni Quaranta, dopo la narcosi inflittagli dal regime fascista, significa conferire al sindaco poeta una tridimensionalità che ne proietta la figura in avanti, svelandone la sorprendente attualità.
E’ innanzitutto rispetto al proprio tempo che Scotellaro è dirompente, rivoluzionario, perché il suo approccio alla questione meridionale accantona definitivamente, dimostrandone sul campo tutti i limiti, l’elaborazione post-unitaria che, partita con Pasquale Villari e passata per Francesco De Sanctis, aveva attraversato tutta la seconda parte dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, trovando finanche una sua alta compiutezza e sistematizzazione teorica nell’idealismo crociano. Era il meridionalismo delle classi colte e del notabilato, che aveva quasi completamente rimosso, o nella migliore delle ipotesi sottoposto a brutali semplificazioni, il principale problema posto dal processo unitario: l’integrazione delle masse meridionali, composte per un’altissima percentuale da contadini, nel nuovo Stato nato nel 1861. Dove per integrazione deve intendersi il riconoscimento di un’autonoma soggettività politica e civile del mondo contadino, nel compiersi del processo unitario privato, ab origine, della possibilità di maturare, attraverso un’opera di mediazione della politica ma soprattutto della cultura, una precisa consapevolezza del proprio ruolo nazionale. Nel suo tentativo di superare questa torsione, Scotellaro si muove in pieno nella linea interpretativa gramsciana del Risorgimento come “rivoluzione passiva”, mentre l’accusa di astoricità mossa alla sua opera non fa altro che rivelare alcuni ineliminabili vizi di fondo della cultura idealistica italiana.
Il meridionalismo del figlio del calzolaio e della sarta di Tricarico, che ha studiato tra Sicignano, Cava de’ Tirreni e Trento, è in parte influenzato dalla pedagogia gramsciana ma riconducibile per vie tortuose e traverse ai magisteri di Guido Dorso e di un altro grande eretico del primo Novecento, Gaetano Salvemini. Soprattutto rappresenta, per la sua straordinaria capacità di innovazione, una spina nel fianco anche per la sinistra tradizionale del suo tempo, soprattutto quella comunista. Tuttavia, per essere conseguenza diretta di alcune rigide chiusure dogmatiche, nonché della particolare curvatura assunta dalla cultura comunista italiana dalla Svolta del ’44 in poi, le critiche – talvolta astiose – che si abbattono sulla sua opera da parte del potente responsabile della Cultura del Pci, Mario Alicata, e di autorevoli critici d’area come Carlo Muscetta, e Carlo Salinari (suo conterraneo, di Montescaglioso), portano alla luce per contrasto l’essenza stessa dell’eresia e dell’irregolarità di Scotellaro rispetto al suo orizzonte politico di riferimento (la sinistra) e, di riflesso, la sua straordinaria, seducente, modernità.
Andiamo con ordine. Messasi al riparo sotto l’ampio e accogliente ombrello dell’impostazione idealistica, lì condottavi dalla sapiente (e interessata) regia di Togliatti, la cultura comunista del dopoguerra aveva regolato il confronto con la cultura liberale non sul metro del conflitto, ma su quello della competizione tra simili per la conquista dell’egemonia nella società italiana. Nel confronto, peraltro asimmetrico, con un’élite colta che si era data, tra gli altri, il compito di orientare una borghesia tra le più anarchiche e prive di senso dello Stato d’Europa, il Pci, inteso come organizzazione di dirigenti, quadri e militanti con un proprio baricentro tra gli operai delle grandi fabbriche del Nord, aveva semplificato di molto l’approccio alla questione meridionale. Sposando gradualmente la visione – già rintracciabile nel meridionalismo liberale – della trasformazione sociale e economica calata dall’alto. Una strada non solo teorica: i prodromi della grande Riforma Agraria dei primissimi anni ‘50 furono i famosi Decreti Gullo, dal nome del ministro comunista che li firmò.
Ma le imbarazzanti chiusure dei comunisti verso l’opera di Scotellaro relegavano in un limbo di sostanziale inapplicabilità anche la lezione gramsciana - politica e non teorica - sull’indispensabilità di un’alleanza “organica” tra operai del Nord e contadini del Sud, insieme chiamati a creare la massa di manovra cui affidare l’innesco del processo rivoluzionario. Pur partendo da presupposti radicalmente diversi e mirando a obiettivi totalmente antitetici, nei fatti il Pci dimostrava di approcciare la questione meridionale con il medesimo armamentario teorico della cultura di discendenza crociana. Muovendosi in un nugolo di irrisolte aporie, i suoi intellettuali di riferimento, troppo preoccupati di costruire elaborazioni che ribadissero l’indiscutibilità della funzione pedagogica e di direzione delle lotte del Partito rispetto all’autonoma rappresentazione di se stesse delle classi popolari meridionali in cerca di emancipazione, tendevano a escludere categoricamente dal proprio orizzonte quell’opera di mediazione diretta con le masse contadine che invece rappresentò la cifra saliente dell’impegno civile, intellettuale e politico di Scotellaro. Uno dei momenti in cui questo habitus mentale degli intellettuali comunisti sarebbe emerso con forza fu nel dibattito sviluppatosi nel 1950 sul saggio di Ernesto de Martino “Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno”, con la dura polemica innescata dal filosofo Cesare Luporini sul concetto di “irruzione” del mondo popolare nella storia e il conseguente (e necessario) “imbarbarimento” della cultura marxista. La discussione si polarizzò intorno al nodo dell’alternativa tra spontaneismo e organizzazione, e furono in prevalenza i socialisti, il partito di Rocco, a mostrare un atteggiamento più aperto e interlocutorio nei confronti delle proposte del grande antropologo napoletano. Mutatis mutandis, 16 anni dopo, nel 1966, identiche diffidenze e chiusure avrebbe incontrato nel Pci una delle opere cardine dell’operaismo più maturo, “Operai e Capitale” di Mario Tronti, costruito sull’esaltazione dell’operaio massa, la “rude razza pagana” vista come nuovo soggetto rivoluzionario in grado col proprio vitalismo di mandare gambe all’aria l’impostazione riformista della sinistra tradizionale e di sabotare, fino a farlo crollare dalle fondamenta, il modello di sviluppo capitalistico. Come vedremo, l’”irregolarità” contadina scotellariana si sarebbe significativamente incrociata post mortem, almeno sul piano delle “affinità elettive” e del metodo, con aree della sinistra socialista che successivamente al boom economico e all’affermazione del neocapitalismo avrebbero dato voce alle prime, nascenti sensibilità operaiste. E l’incontro, manco a dirlo, sarebbe avvenuto sul terreno della destrutturazione dei paradigmi dominanti.
Quanto al Pci e all’atteggiamento da tenere rispetto alla questione contadina e meridionale, unite da un nesso inscindibile, ci sarebbe voluta tutta la sapienza politica – e talvolta anche tecnica – di un Emilio Sereni, di un Gerardo Chiaromonte, di un Emanuele Macaluso, solo per fare tre nomi di dirigenti togliattiani doc, perché l’impostazione affermatasi tra la fine dei Quaranta e la prima metà dei Cinquanta venisse progressivamente accantonata. E d’altronde il sostanziale fallimento della Riforma Agraria, da Scotellaro purtroppo solo sfiorato analiticamente nelle pagine di “Contadini del Sud” scritte poco prima di morire, si era già preoccupato, sul piano storico-fattuale, di evidenziarne i difetti strutturali.
Abbiamo quindi individuato il punto sul quale il meridionalismo di Scotellaro si trasformava in eresia, e il sindaco – poeta in un irregolare: vale a dire la necessità, da lui intuita, di un lavoro intenso, culturale e politico (la consapevolezza dell’agire), finalizzato a accendere nei contadini del Sud una peculiare facoltà di narrarsi, di prendere in mano il proprio destino e, soprattutto, di rappresentare senza deleghe in bianco le proprie esigenze, i propri drammi, la propria secolare condizione di separatezza dal resto del Paese.
Gli equivoci, i fraintendimenti cominciarono subito, e con essi arrivarono le scomuniche: funzionava così. Con parecchia approssimazione, il mondo di Scotellaro fu fatto coincidere, nell’interpretazione dell’intellettualità comunista, con quello descritto nel Cristo di Carlo Levi, suo mentore e amico. In realtà, il mondo contadino di Scotellaro e quello di Carlo Levi, meglio, le rispettive rappresentazioni, sono molto diverse. Talvolta anzi contrastano in maniera profonda. Al mondo contadino del Cristo di Levi, cristallizzato, quasi idealizzato nella sua impotenza, Scotellaro oppone una realtà in cui gli elementi di dinamismo, di movimento, prevalgono sul fatalismo, sulla rassegnazione, sulla supina accettazione di una sorte ritenuta ineluttabile (“Sempre nuova è l’alba/E’ nuova!”). Applicando il metro delle scienze sociali all’analisi della parte poetica della produzione culturale di Scotellaro, salta agli occhi come le sue liriche non si perdano mai nei cieli dell’astrazione, e men che mai raccontino una “terra arcana e misteriosa ancora tutta da studiare e da rivelare nella sua essenza nascosta e nelle sue apparenze molteplici”, come avrebbe scritto Alicata su “Cronache Meridionali” nel 1954 (“Il meridionalismo non si può fermare a Eboli”). Al contrario, esse appaiono come inni di liberazione umana con un punto di caduta concreto nella storia di quegli anni: il movimento per l’occupazione delle terre, che al Sud costituirà una delle tappe più interessanti del processo di democratizzazione avviato con la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica, l’adozione di una delle Costituzioni più avanzate del mondo occidentale. Molto più di Levi, la febbre civile di Scotellaro puntava un obiettivo che, 80 anni prima, lo Stato unitario non era riuscito a realizzare, ma meglio sarebbe dire non aveva voluto realizzare. Vale a dire, ora per allora, la partecipazione attiva delle masse rurali meridionali alla costruzione della Nuova Italia.
Anche la polemica che associava Scotellaro a Levi aveva un retroterra politico, rientrando nella dinamica di confronto/competizione apertasi subito tra le forze di sinistra all’interno del Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno, nato nel 1949 dopo il fallimento dell’esperienza elettorale frontista di un anno prima. Con il partito scelto da Scotellaro nel 1943, il Psi, impegnato in uno spericolato equilibrismo nel ribadire le ragioni dell’esistenza di due partiti di ispirazione marxista senza rinnegare il principio dell’unità di classe. Dall’altro versante, quello dal quale provenivano le critiche (a Scotellaro non fu risparmiata nemmeno la medesima etichetta che, anni dopo, sarebbe stata appiccicata a un altro grande eretico del Novecento, Pier Paolo Pasolini, cioè quella di reazionario), il Pci coglieva il potenziale destabilizzante dell’azione culturale e politica del giovane intellettuale di Tricarico e, nello sforzo di comprimerne l’influenza, lo attaccava sul fianco più esposto: quello della produzione poetica, affidata, prima della morte, essenzialmente alle colonne di riviste come “Botteghe Oscure”, “Il Ponte”, “Comunità”. Era una operazione che tendeva fondamentalmente a negare la presenza di qualsiasi maturità nella riflessione di Scotellaro consegnandola a giudizi liquidatori, strumentalmente basati sulla sua giovane età.
Rileggendo le relazioni svolte al grande convegno nazionale organizzato dai socialisti a Matera nel febbraio 1955, quando Rocco era morto da poco più di un anno, emerge come anche nel rapporto tra Scotellaro e il suo partito di appartenenza si siano ripetuti, per più di mezzo secolo, alcuni cliché interpretativi che non rendono perfettamente giustizia al sindaco - poeta. Il principale riguarda il problema di chi adottò chi: fu Scotellaro a adottare il Psi, o il contrario? Tenendo conto dei due diversi piani temporali lungo i quali si sviluppa la militanza partitica di Rocco, c’è una parte di verità in entrambe le affermazioni. Non c’è dubbio, ovviamente, che l’adesione al partito nel 1943 fu l’atto volontario e consapevole di un ventenne che vedeva concentrate nei socialisti l’ansia di riscatto degli ultimi e una forte tensione libertaria tanto vicina al proprio sentire poetico, anche se sulla scelta potrebbe aver influito il minore radicamento nel mondo rurale meridionale, e in modo specifico quello lucano, dei comunisti. Più in generale, inoltre, non sarebbe corretto mettere in discussione la reciproca attrazione tra i socialisti e Scotellaro negli anni in cui egli fu sindaco di Tricarico. Il rapporto si inverte (nel senso che è il Psi a adottare Scotellaro come proprio intellettuale meridionalista di riferimento) dopo la morte di Rocco nel dicembre del 1953, giunta al culmine di un periodo di tre anni in cui l’impegno politico e civile del giovane poeta di Tricarico ha trovato un canale espressivo non alternativo, però diverso dal partito: la ricerca sociologica sul campo condotta per conto della Scuola di Agraria di Portici diretta da Manlio Rossi Doria. Anche nel caso di questa adozione postuma, però, vanno distinte le esigenze tattiche contingenti (nel ’55 il Psi ha già imboccato senza remore la strada dell’autonomismo e deve scrollarsi di dosso le ultime scorie dell’esperienza frontista) dagli “innamoramenti sinceri”. Tale è senza dubbio quello che non ha timore di manifestare l’organizzatore del convegno, Raniero Panzieri, all’epoca creativo e brillante responsabile della sezione stampa e propaganda del Psi. Il dibattito di Matera farà registrare la completa marcia indietro degli intellettuali comunisti rispetto alle critiche mosse a Scotellaro, sintetizzata nell’intervento, quasi un’autocritica, che svolgerà Mario Alicata. Ma i contributi che lasceranno un segno, sciogliendo anche il nodo relativo alla collocazione di Scotellaro nella sua giusta dimensione teorica e in senso lato politica, sono quelli di Franco Fortini e le conclusioni di Panzieri.
Scrollando provocatoriamente l’albero della modernità, Fortini - che lascerà i socialisti di lì a poco senza però mai aderire ai comunisti - assegna ai contadini di Rocco la patente di rivoluzionari involontari, in quanto portatori di valori completamente antitetici rispetto a quelli della società del tempo: “Dialetticamente, la loro «arretratezza» preborghese prefigura, abbagliante, la società postborghese. Ogni riformismo non può che corromperli, questi uomini seri integri schietti, introducendo quella scissione fra pubblico e privato che da cento o duecent'anni ci ha ridotti uomini dimezzati. Bisogna portarli - che dico: bisogna che essi portino se stessi – nell’era atomica ed elettronica, così come sono”. Panzieri, che dal 1957 non avrà più incarichi di partito, dal quale anzi si allontanerà progressivamente dando vita all’esperienza dei Quaderni Rossi, parlando di Rocco dirà invece: “L'unità della sua azione politica e della sua poesia e delle sue ricerche sul mondo contadino sono il risultato e insieme l’esempio di una posizione meridionalistica viva, attuale, che ha le sue radici nella realtà di oggi del Mezzogiorno, nel risveglio delle masse contadine, nella loro coscienza politica precisa, nelle loro aspirazioni di emancipazione che hanno la forza di tradursi in ideali e scopi di valore nazionale”.
Fortini e Panzieri. “Due “irregolari”. Poeta civile il primo; padre indiscusso dell’operaismo e sostenitore dell’indagine sociale il secondo, il cui impegno teorico avrebbe portato a una originale reinterpretazione del marxismo basata sull’accantonamento del Marx filosofo della storia a vantaggio del Marx inventore delle moderne scienze sociali: il nodo critico dentro il quale anni prima si era istintivamente infilato Rocco, armato solo del suo spontaneismo poetico. Nei due marxisti critici simbolicamente si rispecchia il doppio tempo della biografia intellettuale di Scotellaro: quello del poeta civile e quello del ricercatore. Mestieri scomodi, difficili nell’Italia dei primissimi anni Cinquanta, che egli però fu capace di trasformare in altrettanti magisteri. La sua carica eretica e la sua irregolarità ebbero lo stesso effetto di un terremoto sia sulle categorie interpretative del meridionalismo classiche sia su quelle del suo tempo, e questo fa di lui, indiscutibilmente, un grande innovatore.
Il mondo a cui pensava e tendeva Scotellaro non si sarebbe mai realizzato: l’affermarsi nell’Italia del Miracolo di quello che i sociologi avrebbero chiamato “sviluppo duale” avrebbe costretto i figli dei contadini del Sud a prendere la strada del Nord in cerca di un orizzonte di benessere e di stabilità. Ciononostante quella del sindaco-poeta non è la storia di una sconfitta. L’eresia scotellariana, oltre la fascinazione di maniera e l’enfasi celebrativa legata alla ricorrenza, non ha perso nessuno dei suoi caratteri peculiari per i quali ancora oggi la ricordiamo. Una lezione di vita, di etica, di impegno civile e culturale che attraversa i decenni mantenendosi sempre e per sempre straordinariamente attuale e moderna.
*da Critica Sociale n. 4, settembre-ottobre 2023
Massimiliano Amato
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