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Un partito del lavoro? O piuttosto il dilemma “socialismo o barbarie”?

Pubblicato: 10-02-2023

Dalla disaffezione per il lavoro alla marxiana “liberazione dal lavoro”: qualcosa che fa a pugni con la sinistra laburista tipica del Novecento. Ma la proposta che agita il dibattito precongressuale del Pd ignora la questione

Nell’indovinata mostra sull’attività di Bob Dylan come scultore e pittore (allestita al Maxxi di Roma, con grande intelligenza), si legge come la sensibilità sociale del menestrello di Berkley abbia a che fare con la sua origine operaia, con l’essere nato e cresciuto nel cuore della zona mineraria e industriale del Minnesota. Il lavoro come terribile fatica, e soprattutto come relazione sociale, che divideva i subordinati dai privilegiati, gli ha permesso di cogliere meglio di altri – a livello istintivo, prima ancora che di consapevolezza personale – cosa stesse agitandosi nel vento di quel primo movimento giovanile che, negli anni Sessanta, increspava le onde californiane. Il lavoro era ancora rivelatore della nostra vita, allora. Oggi Dylan dipinge città e scorci di America, dove individui si ritrovano nella propria solitudine, in un vento che non dà più risposte, per tornare alla sua canzone di quegli anni, Blowin’ in the wind.

Forse questo percorso, dalla metà degli anni Sessanta a oggi – che ritroviamo lucidamente rappresentato nel museo romano, appena espugnato dal governo di destra –, sarebbe un contesto utile in cui collocare la diatriba sul nome del nuovo Pd, che si è accesa nell’ultima assemblea nazionale. Come accade puntualmente a ogni tornante che gli eredi del Pci e della sinistra democristiana si sono trovati ad affrontare, entrando nel nuovo millennio, il cambio del nome è il jolly che viene giocato per esorcizzare una discussione più di fondo, che tocchi realmente identità e soprattutto base sociale del partito. La proposta di assumere la dizione di “Partito del lavoro” diventa così l’ennesimo artificio per mascherare l’estraneità di questa sinistra al Ventunesimo secolo. La proposta sembra sbagliata nel merito – e del tutto pretestuosa nel metodo.

In tutto il mondo il lavoro non è più la caratteristica che distingue i produttori dalla rendita, e nemmeno il terreno su cui innestare conflitti che contestino sia la distribuzione del reddito sia, soprattutto, del potere. Nei primi nove mesi del 2022, un milione e mezzo di persone ha deciso di lasciare il proprio posto di lavoro, una parte significativa di questi dimissionari aveva un contratto a tempo indeterminato. L’anno precedente si erano dimessi 1.330 mila.

Forse è la prima volta che si registra nel nostro Paese una tendenza per cui, nel pieno di una crisi economica, che è anche e soprattutto crisi di fiducia nel futuro, il numero delle persone che lasciano volontariamente il proprio lavoro è largamente superiore a quello dei licenziamenti: di circa tre volte. Ovviamente, in una tale massa di casi, vi sono infinite situazioni personali, in cui, per esempio, il lavoro risultava insopportabile o talmente mal retribuito da renderlo impraticabile. Ma certo anche l’osservazione dello scenario internazionale (clamoroso quello statunitense, dove in una situazione di piena occupazione più di sei milioni di persone abbandonano l’attività subordinata) ci fa considerare come un elemento trainante, che si sta riproducendo da vari anni, sia l’incompatibilità sociale con il lavoro subordinato tout court.

In particolare – spiegano le ricerche del settore –, i fattori che rendono incompatibile un lavoro subordinato sono la serialità, ossia che tutti i giorni per tutti i mesi di tutti gli anni si preveda di avere gli stessi vincoli e condizionamenti di orari e comportamenti, e la scarsa dinamica professionale e di reddito, quella che una volta era invece la sicurezza del posto fisso. Siamo in presenza, da tempo, di una ormai strutturata, matura e condivisa refrattarietà a un impiego tradizionale, in cui serialità e subordinazione diventano fattori di intolleranza da parte di strati sempre più larghi. Il lavoro non è più né un valore positivo né un obiettivo praticabile. Torna a essere solo fatica, pura coercizione, alla quale appena possibile ci si vuole sottrarre. Una maledizione da cui liberarsi, come peraltro intendeva chiaramente Marx, quando parlava del comunismo come abolizione del lavoro, e non certo di una sua perenne programmazione.

Può essere questo il riferimento di una sinistra che cerca la sua sintonia con il Ventunesimo secolo? Il dibattito che si propone potrebbe almeno darci l’opportunità di cominciare a fare chiarezza intorno a una gamma di analisi e approcci su un tema nodale per l’intera cultura progressista. Tanto più che, di rimbalzo, discutendo di lavoro, si potrebbe perfino trovare l’occasione e il tempo per dare un occhio a quanto sta accadendo nel campo dell’automatizzazione delle attività e delle relazioni sociali, che si combina con il lavoro nel definire il campo delle attività produttive in corso.

In sostanza, il vero tema da affrontare è cosa significhi oggi produzione e valore, nell’epoca della loro riproducibilità tecnica, come avrebbe detto Benjamin; e poi comprendere come collocarsi dinanzi alle nuove contraddizioni, tutte interne solo al perimetro digitale, che stanno ridisegnando profili e figure sociali, e da cui la sinistra non può prescindere. Un buon punto di partenza sarebbe chiedersi dove e come è iniziato lo tsunami che ha devastato il campo della sinistra.

Se dovessimo indicare una causa, uno spartiacque di questa storia, l’origine di quel “diluvio” (che Marx paventava, nella seconda metà dell’Ottocento, e in vista del quale, convulsamente, si apprestava a concludere le sue fatiche editoriali), per darci almeno una ragione di come sia stata spazzata via persino la memoria di due secoli di storia e civiltà del movimento del lavoro, non potremmo non far coincidere quella causa con l’avvento del mondo digitale. La data è sempre la stessa: 1989. Crollo del muro e avvio dello scioglimento dell’Urss. Le cause, però, non sono quelle su cui la maggioranza delle discussioni a sinistra si sono attardate: non un’indistinta domanda di libertà, o un semplice autonomo accartocciamento del sistema di comando del socialismo reale, ma una forte e originale ondata di protagonismo individuale.

È il floppy disk, come spiega esaurientemente Manuel Castells nella sua monumentale trilogia de La società in rete (Bocconi editore) a sbriciolare le economie di piano. È stato quel dischetto la vera talpa moderna. Fu quel sistema di portabilità individuale delle informazioni che, passando di mano in mano, collegava, punto a punto, le ambizioni e i desideri di milioni di individui, e veicolava la voglia di differenza e di successo dei singoli, rendendo così insopportabile il sistema sovietico di pianificazione egualitaria, e la stessa dimensione di massa del vecchio capitalismo verticale. Non è differenza da poco. Non la libertà, ma l’ambizione individualistica ha sconfitto la sinistra del lavoro. A Est e a Ovest.

Paradossalmente, per una vendicativa legge del contrappasso, il movimento operaio viene spiazzato e schiantato proprio sul suo terreno dell’analisi sociale. Incapace di percepire e misurare l’insorgere di fattori di squilibrio, quale è la riclassificazione delle relazioni sociali sulla base di una nuova forma di produzione e distribuzione della ricchezza, che è appunto la società in rete del pensiero computazionale. Uno smacco che non era scritto né nel destino né nella memoria culturale di quell’esperienza. Filo ce n’era per tessere anche una tela digitale. Come constata infatti, nel suo Postcapitalismo  (Il Saggiatore editore), Paul Mason, uno dei più innovativi e combattivi economisti  della sinistra inglese, l’evoluzione del capitalismo non ha scartato o rovesciato quanto era nel novero delle previsioni della cultura delle esperienze socialiste e comuniste: piuttosto ha seguito, quasi pedissequamente, le forme indicate dalla bussola marxiana, in particolare nel suo  decisivo passaggio da pura macchina del plusvalore operaio a sistema che “trasforma attività non di mercato in attività di mercato”.

Paradossalmente, proprio il declino della fabbrica come simbolo di sviluppo e efficacia di profitto, la crisi di quel meccanismo di oppressione contro cui è nato il socialismo scientifico, un modello  basato sull’omologazione della società alla catena di montaggio fordista, con le sue gerarchie ed egemonie, insite nel processo di sfruttamento della fatica umana, e tutto organizzato verticalmente dall’alto verso il basso, ha spiazzato e sguarnito innanzitutto la stessa sinistra, più che i proprietari delle stesse fabbriche. Non ci siamo accorti di una vittoria che abbiamo lasciato gestire dalla controparte.

Per ritrovare una bussola, basterebbe rivolgersi a quello scaffale meno frequentato delle librerie di sinistra, dove solitamente, si mettono a impolverarsi un paio di tomi di Marx, poco diffusi, con un’aura ancora esoterica, dalla struttura narrativa eccentrica e confusa, un’opera che sembra scritta con link ipermediali, con i copia e incolla di word, oggi si avvicinerebbe all’algida e lucida erudizione di un chatbot complesso ma perfettamente consequenziale: i Grundrisse (ovvero “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”). Un libro che lo stesso Engels non aveva mai letto, e che appare sulla scena della sinistra solo nel 1939, in russo; e in Occidente arriva alla fine degli anni Sessanta. Nel famosissimo “Frammento sulle macchine”, Marx – siamo nel 1858 – sembra quasi voler correggere, preventivamente, ogni eventuale sbandamento fabbrichista che dovesse essere autorizzato dal suo successivo testo più diffuso, Il capitale, che sta progettando contemporaneamente alla stesura dei Grundrisse.

Proprio mentre sta scrivendo intorno alla teoria del plusvalore, così descrive l’evoluzione successiva del processo produttivo:“[l’operaio] inserisce il processo naturale che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al processo produttivo, invece di esserne l’agente principale” – e continua, non lasciando spazio a dubbi o ambiguità sul modo in cui le macchine verranno usate dal capitalismo cognitivo – “la potenza delle macchine non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione”. Siamo a quasi 170 anni fa. Un passaggio, questo di Marx, che Mason così sintetizza:

“Alla luce di ciò che il marxismo sarebbe diventato – una teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro –, si tratta di un’affermazione rivoluzionaria, che suggerisce come, nel momento in cui la conoscenza diventa una forza produttiva a sé stante, enormemente più importante del lavoro impiegato per creare una macchina, la grande questione non sia più salari contro profitti, ma chi controlla la ‘potenza del sapere’. Una interpretazione che spiega anche l’apparente brutalità con cui proprio Marx ha voluto esplicitamente impedire di essere usato a sostegno di ogni visione meccanicamente operaista, quando scriveva che ‘lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza’”. Lo sfruttamento basato sul furto del tempo, che potremmo definire con il linguaggio attuale, l’algoritmo dell’industrializzazione, non è più, da tempo, il luogo del conflitto che può intaccare le basi materiali e ideologiche del capitalismo cognitivo. Lo spettro che sta disegnando quella che Paul Virilio, già nel 1995, definì “la democrazia automatica”, in cui la decisione diventa preventiva rispetto al consenso, e che si realizza solo mediante forme di rilevamento a campione, come i sondaggi di opinione o l’audience televisiva, tutto ciò che è la potenza di calcolo, lo ritroviamo all’opera nella valorizzazione sociale delle merci e dei servizi.

Oggi, che sappiamo com’è andata quella lunga storia del movimento operaio, e ne conosciamo effetti e conseguenze, responsabilità e vittime, potremmo laicamente ragionare sul buco nero di una visione unilaterale e monoculturale, quale quella che ha tenuto tutte le esperienze marxiste lontano dalle elaborazioni immateriali del capitale, e chiederci se una sinistra dei Grundrisse sarebbe sopravvissuta meglio di quanto le sinistre del Capitale siano riuscite a fare, e se non sia quello un punto di ripartenza, la domanda che Mason fa rimbalzare: chi controlla oggi il sapere e come?

Un lucido saggio di Moisés Naim, già direttore per quindici anni di “Foreign Policy”, significativamente intitolato La fine del Potere (Mondadori editore) riporta, nel 2010, un documento altamente indicativo del trend socio-politico che stiamo vivendo. È la testimonianza dell’ex segretario generale della Nato negli anni Novanta, lo spagnolo Javier Solana, che così si esprime: “Negli ultimi venticinque anni – un periodo segnato dalla guerra nei Balcani e in Iraq, dai negoziati con l’Ira, dal conflitto israelo-palestinese, e da infinite altre crisi – ho visto un gran numero di nuove forze e nuovi fattori ostacolare persino le potenze più ricche e tecnologicamente avanzate. Esse, e con questo intendo dire noi, raramente riuscivano ancora a fare quello che volevano”(citato da La fine del Potere, p. 75). Ovviamente non siamo alla dissoluzione del potere, ma a una sua trasformazione ed evoluzione, discontinua della sua microfisica – avrebbe detto Michel Foucault, in altri contesti.

Una riflessione, questa, sulle nuove asimmetrie geopolitiche, che dà finalmente ragione di quelle limitazioni e inefficienze del sistema militare occidentale, che in questi anni hanno ridisegnato radicalmente la mappa dei poteri reali. Ricordiamo cos’è accaduto in Iraq e in Afghanistan, e cosa sta accadendo in Ucraina in questi mesi: Davide tiene in ostaggio Golia.

Questa nuova geometria bellica viene approfondita dal direttore del Brooking Institute, P. W. Singer, già nel 2007, con una ricerca svolta per conto del team dell’allora debuttante candidato alle presidenziali Obama. Nel report si legge: “Siamo in una situazione dove gruppi privati possono disporre di grandi saperi e poteri tecnologici prima riservati agli Stati. E oggi non abbiamo risposte adeguate a questo tipo di nuovo conflitto” (vedi citazione da Obama.net, a cura di Michele Mezza, Morlacchi editore, Perugia 2009).

È questa diffidenza dei custodi della gerarchia capitalista, che si vedono accerchiati e insidiati da torme di nani, che fa dire al già citato Mason che “ci sono sempre più prove che le tecnologie informatiche, invece di creare una forma di capitalismo nuova e stabile, stanno dissolvendo il capitalismo: corrodono i meccanismi di mercato, erodono i diritti di proprietà e distruggono la vecchia relazione fra salari, lavoro, profitto”. E Mason così conclude: “Non appena gli economisti hanno provato come funziona questo terzo tipo di capitalismo, sono incappati in un problema: non funziona”.

Proprio Obama fu una risposta che, dal cuore del capitalismo americano, veniva alla nuova domanda di confronto simmetrico che montava dalle periferie dell’impero. Il presidente nero fu il network che si voleva contrapporre ai network che stavano sollevando i sobborghi del mondo, con l’esito che oggi sappiamo. La rete, la sua potenza di raccogliere e ritrasmettere il protagonismo sociale, pur nella tenaglia dei condizionamenti dei monopoli cognitivi, sta disalberando le piramidi del potere, così come si sono storicamente strutturate; e rende meno stabile ogni posizione di rendita dei nuovi tycoon digitali. “In questo ambiente sociale – dice ancora Mason –, a differenza che nella fabbrica fordista, i padroni di casa siamo noi e gli ospiti, per quanto ancora invadenti, sono loro”.

Questi due fenomeni – la smaterializzazione del lavoro mediante sapere informatizzato, e il decentramento della partecipazione attiva fino al singolo individuo – sono i nodi che sembrano antitetici a un’idea di sinistra laburista. È questo il gorgo da cui uscire per entrare nel nuovo secolo.

Su questo il Pd è muto da sempre, e con lui la sinistra del lavoro in tutto il mondo. Siamo ormai alla quinta generazione tutta digitale; vediamo attorno a noi un’antropologia dell’algoritmo, in cui si vive mediati dai sistemi di calcolo. Da almeno due decenni, l’intera geopolitica del pianeta è disegnata dalla capacità di orchestrare e finalizzare un sistema di comunicazione pulviscolare che individua milioni di bersagli individualmente, sbriciolando ogni dimensione collettiva dell’opinione pubblica. Abbiamo visto elezioni di presidenti americani, consultazioni in Inghilterra, Francia e Italia, in cui venivano spostate masse di voti lavorando sui singoli assetti cognitivi medianti sistemi come Cambridge Analytica, e tutto tace, nessuno prova nemmeno a difendersi.

Abbiamo ormai alle spalle la fase del movimentismo digitale, dove, come spiegava Manuel Castells nel suo saggio, studiatissimo negli apparati di sicurezza, Reti di indignazione e di speranza (Bocconi editore, 2012), che analizzava i fenomeni di insorgenza reticolare ­­­­­­­– dalle primavere arabe alle sollevazioni nell’Est europeo –, “il potere era esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”. Significati che sono diffusi e condivisi proprio mediante i social network, e fanno dire a Castells che “i sistemi di relazione digitali non sono il quarto potere, sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere in un gioco di relazioni fra soggetti politici e attori sociali in competizione fra loro”(Comunicazione e potere, Bocconi editore, 2008). Questo spazio di competizione si sta dilatando sempre più, e sta riclassificando le forme della politica e della governance dello Stato. In questo spazio troviamo milioni di figure professionali, ceti medi produttivi, interi popoli di giovani formatori: qui troviamo il dualismo fra calcolanti e calcolati che ha sostituito radicalmente la contraddizione capitale/lavoro. Uno scenario che Marx aveva intuito e il capitale ha programmato.

L’atto di nascita della rete non è il mitico primo messaggio del luglio del 1969, fra i calcolatori di due università californiane; lo è piuttosto il fondamentale saggio di Vannevar Bush, nel luglio del 1945, As We May Think (vedi qui), che, rispondendo al quesito del Dipartimento di Stato su come si potesse battere il futuro avversario sovietico, individuò la risposta nel superamento del lavoro di fabbrica come motore del valore e la sua sostituzione con il sapere. Si innestò allora quel processo di ingegneria sociale, che gradualmente trasformò gli sfruttati in consumatori, e poi in competitori.

Una lunga marcia che, in questi decenni, ha neutralizzato il potere negoziale del lavoro, spostando prima le fabbriche e poi automatizzandole, anche sulla base di una pretesa democratica, ossia di servire efficacemente non più solo ottocento milioni di persone, com’era organizzato il sistema industriale fordista, ma una platea almeno di cinque miliardi, se non di tutti gli otto miliardi, degli abitanti del pianeta, che oggi hanno merci e linguaggi per reclamare il loro posto a tavola. Per questo si stressano i sistemi produttivi, si articolano gli apparati logistici, si automatizza l’insieme del funzionamento industriale. Siamo alla tappa dell’intelligenza artificiale che tende a sostituire non più la manovalanza, ma l’intellettualità professionale. Come si governa questa potenza? Chi la governa e per il beneficio di chi? In gioco è la stessa riproduzione della specie, altro che il lavoro.

Come ci ricorda Craig Venter, “la potenza di calcolo non serve per far giocare i giornalisti con i social, ma è lo strumento per riprogrammare la vita umana”. In particolare, per insidiare la nostra autonomia cerebrale. La posta in gioco è ormai proprio il nostro cervello, e la possibilità di aprire una backdoor che permetta ai nostri centri di comando un accesso automatico e inconsapevole alle nuove forme di intelligenza artificiale. Le ricerche sull’Alzheimer, abbondantemente finanziate dai grandi monopoli digitali, sono oggi il grande pretesto per indagare le forme di agibilità del nostro sistema neurologico.

Sotto la spinta dell’invasività computazionale, si rovescia così la grande marcia dell’evoluzione umana. L’avvento dell’homo sapiens, così come lo descrive Yuval Harari nel suo Sapiens (Bompiani editore), è stato contraddistinto da una separazione fra la storia e la biologia. Sono state le grandi narrazioni sociali a plasmare le condizioni e gli approdi della lunga evoluzione dal Neanderthal al “sapiens sapiens”. La capacità di usare suggestioni e mitologie come collanti sociali, per aggregare e governare grandi comunità, è il motore che distingue la nostra specie dall’intero regno animale. Oggi, invece, nell’assoluta indifferenza della politica, la potenza di calcolo sta ritornando a influire direttamente sulle variabili genetiche e chimico-fisiche della struttura umana.

Un’invadenza che ha suscitato la reazione dei poteri totalitari, che hanno percepito la minaccia al loro controllo sugli individui che governano; cosicché si assiste a un nuovo gioco geo-techno-politico, in cui le maggiori potenze nazionali si contrappongono alle dinamiche del mercato tecnologico: il potere di usare il proprio sapere per interferire con l’evoluzione della specie, e determinare nuove e inedite condizioni di controllo e subalternità. Oppure per montare sistemi decisionali che affidano ad algoritmi volontà strategiche, come le criptomonete, o i sistemi sanitari e formativi, sempre più diretti da automatismi del blockchaine, sistemi di decentramento delle informazioni, comunque guidati da algoritmi unici. Questa è la release del nuovo mulino digitale: il calcolo come potere automatico, che direttamente ordina e guida le persone.

Questa potenza come viene regolata, temperata, governata? Da chi e in nome di quali valori e obiettivi? Quali sono i soggetti negoziali e gli interessi che possono dare corpo a una nuova politica esterna e alternativa a queste logiche di “democrazia automatica”? L’algoritmo-nazione è l’unico antidoto?

È la mancanza di risposte condivise e ragionate a questi quesiti che spiega l’assenza della sinistra in questo tempo. Il ring esiste, e anche i contendenti sono a bordo campo. Manca però un pensiero e un interesse che spinga nuovi gruppi sociali a porsi l’obiettivo di un nuovo patto sociale del calcolo, di un’etica del software. Per questo, la domanda da porre è: basta un partito che miri, nel migliore dei casi, a condizionare la distribuzione dei redditi, o diventa necessario un partito, una teoria, una visione, che contestino il potere stesso di programmare in autonomia il futuro dell’umanità? Per dirla come una volta, solo con un apparato che metta al centro la potenza di calcolo torna centrale il dualismo “socialismo o barbarie”.

*dal sito www.terzogiornale.it

Michele Mezza

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