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Fare opposizione, ma come?

Pubblicato: 19-04-2023
Rubrica: Tempi Moderni
Fare opposizione, ma come?

Ai tempi della prima repubblica, stare all’opposizione era, per l’allora Pci, non una condizione di inferiorità ma una risorsa. Perché questa condizione era legata al fattore K, mentre gli stessi comunisti  rimanevano soci fondatori di una repubblica fondata sulla resistenza e sul patto costituzionale; perché il clima era segnato dal legame, apparentemente indissolubile, tra democrazia e progresso economico e sociale; e perché, in questo clima, i comunisti potevano perseguire una politica di rivendicazioni  in cui i successi raggiunti si iscrivevano a loro merito mentre il loro carattere parziale era dovuto ai demeriti degli altri (democristiani e, in particolare, socialisti). Poi vennero, insieme, la dissoluzione del campo socialista e la (contro) rivoluzione di Mani pulite. Accompagnate da un atto di generale abiura di cui è inutile riproporre per l’ennesima volta ragioni e conseguenze.

Una di queste merita però una particolare attenzione. Quella di avere trasformato il PDS poi PD in “partito autosufficiente” e, al tempo stesso, a permanente vocazione governativa. A giustificarla, la sua nuova fedeltà europeista e atlantica, così come la sua compiuta affidabilità economica che, combinata con la sua tradizionale sensibilità sociale, l’avrebbero reso il naturale protagonista di un processo di transizione che avrebbero posto fine, nell’interesse di tutti, all’anomalia italiana.

Le cose, però, non sono andate nel verso giusto.  Prima con l’esplosione del berlusconismo. Poi con quella dei “populisti/sovranisti”. E, infine, con l’avvento al potere, di una destra/destra, ansiosa di dimostrarlo.

Ciò ha contribuito a collocare la vocazione governativa del Pd all’interno di una prospettiva centrista. In uno schema che prevedeva l’intervento della magistratura e, soprattutto di Bruxelles, per ricondurre alla ragione un governo “violatore delle regole”, provocandone la caduta. Poi la formazione di un governo di coalizione tra opposti, a carattere tecnico oppure direttamente politico. Poi il venir meno di uno oppure più partner di questa coalizione con l’avvicinarsi della scadenza elettorale. Infine, come nel gioco dell’oca, il ritorno alla casella di partenza e la ripetizione della stessa partita.

Poi è arrivato il 25 settembre. Un verdetto di cui il Pd ha stentato, per qual che tempo, a comprendere la natura. Per arrivare sulla linea dell’”opposizione dura” in risposta agli attacchi provenienti dal governo e sotto la spinta del voto dei “simpatizzanti” per la Schlein (opposto, peraltro, rispetto a quello dei circoli).

Opposizione dura dunque. Ma su cosa? E con chi?

Allo stato, il problema è lungi dall’essere correttamente impostato. E per ragioni che attengono, insieme, alle circostanze (sostantivo del verbo circondare…). E alla natura stessa del Pd.

Due ragioni su cui molti di noi si sono soffermati sino alla nausea nel corso di questi mesi. E che riproponiamo qui per l’essenziale. “Essenziale” che si riassume nella generale diversità peggiorativa tra prima e seconda repubblica; e, per altro verso, l’adesione senza riserve del Pd a quel “pensiero unico” che ne costituisce l’essenza, con l’aggiunta, non necessariamente migliorativa, del politicamente corretto oltre che del rapporto preferenziale con le cosiddette “categorie protette”.

Si aggiunga che l’ambiente della seconda repubblica è, in ogni suo aspetto, il più sfavorevole possibile alla nostra” specie politica”. Perché è segnato dalla paura nel futuro e dal senso di impotenza nel presente; perché la lotta di classe la conducono , e con successo, i padroni, insofferenti rispetto a qualsiasi controllo e a qualsiasi riferimento alla loro responsabilità sociali e ambientali; perché la “classe generale”è scomparsa dalla scena sostituita da un “popolo” dove la diffusa chiusura ostile nei confronti della politica, delle istituzioni e del pubblico si accompagna ad un bisogno crescente di protezione e di ascolto; perché il liberismo dominante si è tradotto in un privatismo dozzinale in cui sei sollecitato a sognare individualmente qualsiasi cosa mentre non devi aspettarti nulla collettivamente;  perché una politica fiscale regressiva si è tradotta nel degrado generale del servizio pubblico e, insieme, in un suo generale discredito; e, infine e soprattutto, perché l’esplodere della guerra e della cultura della guerra sta portando verso una generale regressione della democrazia e della sua stessa credibilità.

Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto contrastare questo andazzo a partire dalla contestazione della sua stessa natura. Ma in Italia una sinistra normale non esiste. O, peggio ancora, la sua componente dominante, il Pd lo ha cavalcato, fino ad essere corresponsabile se non addirittura promotore della maggior parte delle sue nefandezze. Ciò che lo ha portato, di riflesso, ad allontanare da sé i ceti popolari consolidando, per altro verso, i suoi rapporti, oramai organici, con la borghesia illuminata dei grandi centri urbani.

Tutto ciò ha portato e porterà sempre più a limitare portata della sua opposizione, molle oppure dura che sia. Come ampiamente dimostrato dalle nostre ultime vicende.

In un sistema bipolare chi sta all’opposizione dovrebbe disporre di due risorse: un progetto politico le cui idee forza siano suscettibili di coinvolgere la pubblica opinione e in particolare l’astensionismo di sinistra; e, sulla base di questo progetto, un adeguato sistema di alleanze.

Ora, a quasi sette mesi data dal verdetto negativo delle ultime politiche, non si è fatto il minimo passo in queste due direzioni. Optando per un’opposizione di tipo pavloviano alle ripetute e calcolate provocazioni di questo o quell’esponente della maggioranza.

Queste provocazioni fanno parte di un disegno. Che, come quello fascista, si basa sull’alleanza tra destra radicale e destra pseudo liberale e ha come obbiettivo di liquidare politicamente quello che rimane della sinistra. Ma che, a differenza del fascismo: ha una dimensione europea; si basa non sulla forza ma sulla ricerca del consenso come automatica fonte di legittimazione ( in questo la Meloni non differisce da Macron o da Sunak); e, infine, non sopprime la democrazia ma a  tende a dimostrare  che il suo esercizio è inutile.

In questa prospettiva deve fare la faccia feroce, nelle sue dichiarazioni e nelle sue proposte legislative su temi ad un tempo identitari e dove sa di avere con sé la pubblica opinione . Mentre la sinistra si trova di fronte all’alternativa  del diavolo tra il non reagire e il cadere a piè pari nella provocazione ( questioni gender e lgbt, accoglienza, utero in affitto, sicurezza, ritorno del fascismo), tacendo, invece, o imbrogliando le carte sulle questioni fondamentali ( liquidazione del pubblico,, politica fiscale, salari, crisi delle istituzioni,  lavoro come dovere e non come diritto e, soprattutto, rapporto tra cultura  della guerra e rimessa in discussione delle  regressione delle basi stesse della democrazie. Nella ragionevole certezza che, su ognuna di queste questioni il Pd non è in grado di parlare, come dovrebbe, perché su tutti questi temi ha una coda di paglia lunga così.

Se non il Pd, allora chi?

La sinistra radicale? Per ora, assolutamente no. Perché si divide tra quanti dicono le stesse cose del Pd, alzando semplicemente i toni; e quanti vedono in quello che accade il frutto di un Grande disegno di cui tutti, salvo loro, sarebbero le pedine: garantendo così, insieme, la loro buona coscienza e il loro nullismo.

La società civile? Per ora tante iniziative specifiche; ma nessuna che faccia massa o che raggiunga una dimensione nazionalmente visibile.

Per ora. Ma anche domani? Domani, non chissà quando. Quando il disegno dell’anglosfera, rispondere con la guerra permanente alla perdita della egemonia economica comincerà a rivelarsi perdente. Quando l’Italia sarà costretta a pagare salato la fuoruscita dal debito. E quando i nostri concittadini avvertiranno sulla loro pelle il legame tra la guerra, la cultura della guerra e la generale regressione dei loro diritti e della loro esistenza quotidiana.

Domani, non chissà quando.

Alberto Benzoni

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