Due popoli, due Stati. Non ci sono alternative

La parola pogrom non doveva esistere in ebraico. Nel nuovo Israele, l’idea stessa che gli ebrei venissero assassinati in massa, con i loro figli massacrati davanti ai loro occhi, avrebbe dovuto essere relegata nel regno dell’amara memoria. Era solo nell’Europa orientale dell’esilio che gli ebrei avrebbero dovuto fuggire dai tormentatori decisi a ucciderli, solo lì si sarebbero nascosti nell’oscurità, cercando di trattenere il fiato per non emettere suoni traditori. Una volta che avessero avuto uno Stato proprio, dove potessero finalmente difendersi, non ci sarebbe stato bisogno di parlare di pogrom, se non nei libri di storia.
Ma è stato un pogrom quello che si è verificato in Israele lo scorso fine settimana, molteplici pogrom in realtà, letali come quelli che hanno sterminato gli ebrei di lingua yiddish all’inizio del secolo scorso o, secondo schemi ripetitivi, nei secoli precedenti. Gli ebrei ricordano ancora il pogrom di Kishinev del 1903, una calamità ricordata nelle poesie recitate ancora oggi. A Kishinev furono assassinati 49 ebrei. Sabato scorso, almeno 1.200 persone sono state messe a morte, molte in modi troppo sadici e brutali per essere descritti in una breve riflessione. Purtroppo, la parola pogrom non è più riferibile agli eventi storici degli ebrei, poiché proprio quel popolo, oggi costituitosi in uno Stato democratico, Israele, si muove su questa scala di annichilimento del valore umano assalendo con il suo potente esercito un popolo che non ha nessuna responsabilità della feroce e animalesca strage compiuta da gruppi omicidi delle milizie di Hamas.
L’ONU, l’Europa e tanti altri paesi democratici hanno espresso la loro solidarietà ad Israele e condannato con durezza la carneficina di innocenti e il rapimento di oltre 150 israeliani chiedendone l’immediata liberazione, riconoscendo ad Israele il diritto di reagire, per scovare e punire duramente i colpevoli e liberare gli ostaggi. Ma ora questa parte del mondo sta seriamente giudicando pericolosa la reazione Israeliana, una vendetta che si sta consumando mediante bombardamenti a tappeto di un’aera sovraffollata da milioni di persone, colpendo indiscriminatamente ospedali, scuole, abitazioni civili in cui trovano una morte terribile bambini, anziani donne e uomini senza responsabilità alcuna dei massacri di cittadini Israeliani compiuti da Hamas, un movimento terroristico che si muove in una logica di lotta senza quartiere contro lo Stato di Israele, per la sua completa estinzione.
Solo dopo molti giorni di bombardamenti compiuti alla cieca, Israele si è decisa ad invitare la popolazione a lasciare gran parte del territorio di Gaza, cioè quanto rimaneva delle loro case, della loro vita e ad aprire un canale umanitario per consentire a questo popolo di essere assistito al minimo vitale. La parola pogrom trova qui, di nuovo, la sua tremenda attualità, un contesto di inumana similitudine su cui non possiamo tacere e non esprimere la nostra preoccupazione riguardo al futuro di Gaza e del suo popolo. Infatti, non si tratta solo di scacciare oltre un milione e mezzo di incolpevoli cittadini oltre i nuovi confini indicati da Israele, spingendoli ai confini di un altro Stato, l’Egitto, che non sembra affatto disponibile ad accoglierli, ma di sapere cosa vorrà fare di quel territorio una volta compiuta la missione militare, e quindi capire quale sia il disegno di Israele. E qui il tema della caccia ai capi di Hamas diventa cruciale, poiché i veri comandanti delle milizie risiedono negli stati che finanziano e sorreggono Hamas, verso i quali il mondo: ONU, USA Europa, Russia, Turchia, si sta rivolgendo per una mediazione volta a liberare gli ostaggi, sempre che sopravvivano ai combattimenti che, si presume, si svolgeranno sul terreno di Gaza una volta che l’IDF farà il suo ingresso. La parte più seria della preoccupazione non è se Israele riuscirà a sconfiggere Hamas quanto se l’incendio non si allargherà verso il Libano, con gli Hezbollah già in attivo con il lancio di razzi e l’IRAN, i cui capi proprio in queste ore non hanno mancato di esprimere bellicosi messaggi di guerra.
L’altra, motivata, preoccupazione è generata dal fallimento di Bibi" Netanyahu, un incapace assoluto, che ha portato il suo Paese nella guerra, dopo avere tentato di subordinate l’ordinamento giudiziario all’esecutivo e spaccato il Paese, sottovalutato il ruolo di Hamas e inseguito una politica di insediamenti sul territorio palestinese alimentando così il giusto risentimento di quel popolo. Ma il vero punto critico della situazione è cosa Israele si aspetta da questa guerra una volta che sarà conclusa, quali rapporti intenderà costruire con Gaza e la Cisgiordania, con il popolo palestinese, come pensa reagiranno i Paesi Arabi e i vari Regni con i quali aveva tentato intese chiamate “Abramo”, i quali sicuramente saranno indotti a ripensare e rimandare a tempi meno carichi di tensione gli approcci di distensione, non proprio di pace. Sempre che, nel frattempo, le cose non precipitino e il mondo si trovi con il Medio Oriente scatenato contro l’occidente a fianco dell’alleanza Russia, Cina, India, Brasile Sudafrica, meglio conosciuta come BRICS.
La coalizione di governo che si è formata, sempre sotto la guida di Netanyahu, con la formazione di un gabinetto di guerra, dovrà dare molte risposte e risolvere tanti quesiti in un momento tra i più difficili per Israele. Ne va della sua sopravvivenza. Certamente, spetterà al nuovo governo dare le risposte giuste a problemi complessi, come quello di una convivenza con il popolo Palestinese nel rispetto reciproco delle proprie convinzioni sociali, civili e religiose, ma soprattutto dei confini che dovranno segnare il territorio su cui ciascuno sarà libero di esercitare la propria, autonoma politica, amministrativa e giuridica. Eppure, su questa questione ci sono divisioni verticali e molti dubbi su questa possibile soluzione politica di due Stati due popoli, tanto che importanti Università Americane, Inglesi, Francesi, e in altri Paesi sono diventate centro di manifestazioni studentesche pro Hamas e contro Israele. Anche nel nostro paese si sono avuti scontri, confronti e, specie nei talk show, le posizioni spesso rendono introspettiva la posizione dei contendenti, fino a risultare squilibrata, quando non stupida e incomprensibile.
La ferocia commessa da Hamas il 7 ottobre ha reso molto più difficile invertire questo ciclo mostruoso. Potrebbe volerci una generazione. Richiederà un impegno condiviso per porre fine all’oppressione palestinese in modi che rispettino il valore infinito di ogni vita umana. Richiederà ai palestinesi di opporsi con forza agli attacchi contro i civili ebrei, e agli ebrei di sostenere i palestinesi quando resistono all’oppressione in modi umani – anche se i palestinesi e gli ebrei che adottano tali misure rischieranno di diventare paria tra la loro stessa gente. Richiederà nuove forme di comunità politica, in Israele-Palestina e nel mondo, costruite attorno a una visione democratica abbastanza potente da trascendere le divisioni tribali. Lo sforzo potrebbe fallire. Ha già fallito in passato. L’alternativa è scendere, con le bandiere sventolanti, all’inferno.
Alberto Angeli
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